sabato 24 agosto 2013

Letteratura italiana (a.a. 2008/2009)

Il canto XXV del Purgatorio: spunti per una riflessione sull'anima



di Marco Luchi

Relazione del corso
Letteratura italiana
prof. Andrea Matucci
a.a. 2008/2007


Il modo in cui lo spirito è unito al corpo
non può essere compreso dall'uomo, e tuttavia 
in questa unione consiste l'uomo.
S. Agostino

Ciò che vi accingete a leggere è l'editio minor di una relazione che scrissi in occasione dell'esame di Letteratura italiana (a.a. 2008/2009) da me sostenuto all'Università di Siena, sede di Arezzo. L'argomento su cui verte è, come suggerito dal titolo, il Canto XXV del Purgatorio e la natura dell'anima nella concezione dantesca. Spero l'articolo possa interessarvi, e mi raccomando: commentate, anche qualora non siate d'accordo con quanto ho scritto.

Sinossi

Questo breve saggio tratterà il canto XXV del Purgatorio, con particolare attenzione rivolta alle tematiche ivi trattate. Il lavoro si articola in due parti: nella prima sarà compiuta una lettura narratologica, stilistica e contenutistica del brano; mentre nella seconda si contestualizzerà il passo in questione inizialmente col resto dell'opera, eppoi coi modelli di stile e di pensiero a cui il Poeta attinge. Si segnalerà inoltre prossimità e distanze da questi, evitando di sfociare nel capzioso. Tutto ciò è reso ancor più necessario dal tema del canto: la natura delle anime nell'Aldilà. Un argomento che per sua natura rischia di condurci nel mare magnum della filosofia e della teologia medievali, esulando dall'analisi meramente letteraria.


I PARTE
Analisi formale

Dante “romanziere”: personaggi, luoghi e tempi

La tendenza ad antologizzare singoli canti della Comedìa ha causato la perdita di una visione globale dell'opera e a ignorare il perfetto ordigno narrativo costruito dal Poeta. Il poema è, allo stesso tempo, grande poesia e grande narrativa allo stesso tempo: un'autobiografia in cui il poeta racconta di un lungo viaggio di formazione che va dall'«aere perso» [Inf. V, 89] dell'Inferno, attraversando il «dolce color d'oriental zaffiro» [Pg. I, 13] del Purgatorio, fino allo splendore del Paradiso. Un pellegrino cui faranno da guide  inizialmente Virgilio ed infine l'amata Beatrice.
Senza banalizzare questo capolavoro, si potrebbe dire che siamo di fronte a una sorta di romanzo picaresco ante litteram, costruito su una serie di episodi isolati e incontri con personaggi non ricorrenti. Contrariamente a quest'ultimo però, questi personaggi spesso gettano le basi a spunti di riflessione che verranno portati avanti da altri o, come in questo caso, a cui altri metteranno il punto. Come messo in luce da Inglese, i soli personaggi complessi sono Dante, Virgilio e Beatrice; gli altri infatti sono tipi cristallizzati, privi di una reale articolazione psicologico.
È da notare la precisione con cui l'Autore indica il momento in cui l'azione si svolge per mezzo una difficile metafora astrologica. Dante-poeta ci dice che:

'l sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio.
Pg. XXV, 2-3

Sono dunque le 14 circa del 29 marzo 1300. Quest'indicazione cronologica, che in queste vesti appare a dir poco astrusa al lettore moderno, è molto significativa: il Purgatorio ha una collocazione geografica specifica e una morfologia peculiare, è quindi lecito che il sole scandisca i giorni e le notte. In secondo luogo, come sanno i romanzieri moderni più consumati, la collocazione temporale è centrale nell'organizzazione della materia narrativa: come delineato da Genette, il tempo narrativo riguarda tutte le relazioni tra il discorso narrativo e la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che fanno l'oggetto del discorso narrativo e le loro diverse relazioni di concatenamento, opposizione, ripetizione e quant'altro.

Il punto sulla struttura

Il canto XXV si articola in 139 endecasillabi disposti in terzine, secondo lo schema di rime ABA BCB ecc. con chiusura in XYX Y. Quasi l'intero canto è costituito da una lunga macro-sequenza centrale (79 versi di contro i 30 della precede e i 30 che della seguente) tesa a dimostrare come le anime possano soffrire nell'Aldilà.
I canti della Comedìa sono dei macchinari dagli ingranaggi sapientemente congegnati: si veda a proposito come l'Autore, con la precisione di un “geometra”, inserisca il clou tematico del canto a metà del discorso. Ne sia spia il solenne verso:

apri a la verità che viene il petto [v. 67].

Esso inoltre divide la suddetta macro-sequenza in due parti: la prima che descrivere lo sviluppo dell'embrione e del feto umano [vv. 31-67], sulla linea tracciata dalla filosofia aristotelico-scolastica; la seconda [vv. 68-108] incentrata sul connubio tra intelletto è anima.

Vicenda e figure retoriche notevoli

In queste pagine si parafraserà il canto, riassumendo le vicende e segnalando le figure retoriche più significative. Per facilità di comprensione, si è operata una divisione del canto nelle tre macro-sequenze precedentemente accennate.

Prima macro-sequenza [vv. 1-30]: il dubbio di Dante
Sono le due del pomeriggio. Dante, Virgilio e Stazio si affrettano a compiere gli ultimi passi verso la settima cornice del Purgatorio. Dante-personaggio vorrebbe porre una domanda al suo «duca» su quel che ha visto nella cornice che stanno lasciando, ma un sentimento di imbarazzo lo blocca: si dispone per parlare ma tace. Il tutto è descritto con una preziosa similitudine tratta dal mondo animale:

E quale il cicognin che leva l'ala
per voglia di volare, ma non s'attenta
d'abbandonar lo nido, e giù la cala.
Pg. XXV, 10-12

Accortosi dell'esitare del proprio pupillo, Virgilio, senza rallentare il passo, lo invita  a porgli il suo dubbio. La curiosità di Dante è paragonata ad un arco teso all'estremo e la sua domanda ad una freccia pronta a scoccare, ma ancora trattenuta dalla mano dell'arciere. Ed ecco la domanda tanto attesa:

Come si può far magro
là dove l'uopo di nodrir non tocca?
Pg. XXV, 20-21

Come possono le anime purganti dei golosi ridursi ad un'estrema magrezza se nell'Aldilà le anime non possiedono più necessità fisiologiche quale quella di sfamarsi? La risposta di Virgilio è quanto mai fumosa: dapprima invita Dante a ricordarsi, per comprendere facilmente il fenomeno, di come Melagro si consumò insieme ad un tizzone, poi di come l'immagine dello specchio si muove insieme a colui alla quale appartiene. In sostanza Virgilio offre «degli esempi, cioè delle risposte per analogia, come può fare un poeta» (Blazina et al. 2003, p. 729): la prima inerente alla sfera del mito greco-romano e la seconda al mondo fisico-naturale. Dante-personaggio vuole però di più: non gli basta intuire, vuole capire. A fronte di ciò Virgilio interpella Stazio affinché chiarisca ogni dubbio a Dante.

Seconda macro-sequenza [31-108]: Stazio in cattedra
Stazio dapprima si scusa umilmente con Virgilio di dover prendere il suo posto di maestro; poi invita Dante a far tesoro di quanto sta per dirgli. Inizia così una lunga disquisizione su come il «sangue perfetto» (perifrasi per sperma) venga, nel corpo maschile, irradiato di uis formativa da parte del cuore e, congiuntosi al sangue femminile dopo l'atto sessuale, inizi la formazione del feto. La «virtute attiva» dello sperma diviene ora, secondo un prospettiva squisitamente aristotelica, anima vegetativa. Tale tipo di anima è quella che possiedono le piante: dona al vivente lo spirito vitale, ma non la capacità di percepire il mondo esterno. È pacifico che l'evoluzione dell'anima umana, durante la formazione del feto, non si fermi qui.
Successivamente si sviluppa l'anima sensitiva, che rende l'essere in grado di percepire la realtà circostante e di rapportarsi attivamente con essa. Inizialmente tale tipo di anima si manifesta ad un livello infimo, analogo a quello di animali quali i molluschi o le meduse, per poi evolversi all'unisono col corpo fino al momento in cui «l'articular del celebro è perfetto» [v.69].
Una volta spiegato il rapporto tra corpo e anima, si giunge alla questione clou: «come [il feto] d'animal divegna fante»: come quell'entità dotata di facoltà vegetativo-sensoriali divenga un uomo, un «fante», in altre parole un essere dotato di parola e dunque di ratio.
L'anima intellettiva giunge all'uomo da fuori: essa perviene alle altre due anime, formatesi naturalmente, come atto gratuito di amore da parte di Dio che

lieto […] si volge
sovra tant'arte di natura.
Pg. XXV, 70-71

Queste tre anime divengono così un tutt'uno: una sola anima tripartita.
Tutta questa argomentazione però rischia di risultare troppo dottrinale e astrusa, perciò Stazio (o meglio Dante-poeta) ricorre a un'analogia tratta dalla quotidianità: il processo che, a partire dall'incontro delle due anime formatesi naturalmente con l'anima irradiata da Dio, porta alla nascita di un'anima unica è paragonato all'«omor che de la vite» [v. 77] (un elemento terreno e naturale) che, sotto l'influsso del sole (considerato nel medioevo un qualcosa di immateriale), genera un terzo e differente ente: il vino.
Quando poi sopraggiunge la morte (rappresentata dalla mitica parca Lachesi), l'anima, scissa dal corpo, porta con sé le facoltà naturali (vegetativa e sensitiva) e la facoltà divina (quella intellettiva). Nello status post mortem le facoltà intellettive (memoria, intelletto, volontà) sono ancora più «agute» di prima, giacché platonicamente libere dalla prigione del corpo che le offusca e gli crea impedimento. L'anima del defunto conserva ancora un po' della uis formativa originaria, la quale agisce attorno a sé nello stesso modo e con la stessa intensità che aveva usato per generare le membra dell'embrione, proiettando un corpo potenziale. Ciò è paragonato al cielo che, qualora intriso di particelle acquose, alla luce del sole riflette attorno a sé i sette colori [vv.  94-96]. Segue una nuova similitudine tratta dal mondo fisico: tale corpo etereo segue l'anima che lo genera ovunque questa si sposti, così come la «fiammella» [v. 97] segue il «foco» [v. 98] da cui è generata.
Quel corpo così creato però ha solo le sembianze di quello terreno, non la consistenza: è dunque un «ombra» [Pg. XXV, 101]. Ma grazie a questi corpo, dice Stazio, riferendosi alla propria condizione e a quella delle altre anime:

Quindi parliamo e quindi ridiam noi:
quindi facciam le lagrime e ' sospir
che per lo monte aver sentito puoi.
Pg. XXV, 103-105

Si risponde così alla domanda sollevata da Dante nei primi versi del canto ossia come possono le anime patire la fame e la sete.

Terza macrosequenza [vv.109-139]: i lussuriosi
Durante questo lunghissimo sermone, i tre peregrini hanno attraversato tutta la sesta cornice e stanno per entrare nella settima. Voltatisi sulla destra, i tre notano un'enorme fiamma. Dante con estrema precisione descrive il movimento di quella: la parete del monte proietta in fuori una vampa di fuoco, che poi piega all'indietro e si allontana. L'unica soluzione possibile per i tre è quella di salire dal «lato schiuso» [v. 115], un varco lasciato aperto dall'incedere delle fiamme. Perciò Dante, l'unico dei tre a possedere un corpo di carne, teme da un lato le fiamme e dall'altro di precipitare.
Qui Virgilio torna ad esser la guida paterna di Dante, ammonendolo di tener gli occhi chiusi, giacché non è difficile mettere il piede in fallo. Non mancano in questo ammonimento significati allegorici: gli occhi sono da sempre la finestra attraverso cui l'Amore invade un individuo (si ricordi Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste al core) e le fiamme sono da sempre la metafora della passione amorosa che tutto consuma. In mezzo a questo fuoco si trovano le anime dei lussuriosi. Come tutte le anime del Purgatorio, anche queste intonano un inno liturgico in qualche modo connesso al loro peccato: in questo caso il Summae Deus Clementiae.
Come avviene in ogni cornice del monte, vengono presentati tre esempi di virtù contrari al peccato di cui si sconta la pena. Il primo è dato da Maria che, nel momento dell'Annunciazione, dichiara all'angelo che gli preannuncia il concepimento di un figlio: «uirum non cognosco». Il secondo, tratto dalla mitologia, riguarda Diana che, per custodire la propria castità, si ritira in un bosco e scaccia da qui l'impudica ninfa Elice28, affinché non contamini quel luogo sacro. Il terzo è costituito da uomini e donne casti, anche se non più vergini, che vivono, ossequiosi delle regole, la vita coniugale.

Lingua e stile del Canto: un accenno al plurilinguismo dantesco 

Giacché abbiamo avuto modo di conoscere le copiose figure retoriche e i vari cambi di registro presenti nel canto, nelle righe che seguono si analizzerà le questioni inerenti alla lingua e allo stile, terminando il discorso riguardante l'aspetto formale.
La lingua e lo stile della Comedìa sono caratterizzati dal cosiddetto plurilinguismo: la mistione di più piani stilistici e linguistici, spesso addirittura in contrasto tra loro. Come detto da Contini,

dei più visibili e sommarî attributi che pertengono Dante, il primo è il plurilinguismo. Non si allude naturalmente solo a latino e volgare, ma alla poliglottia degli stili e, diciamo, dei generi letterarî. […] Ecco in Dante convivere l'epistolografia di piglio apocalittico, il trattato di tipo scolastico, la prosa volgare, la didascalica, la lirica tragica e la umile, la comedìa. In secondo luogo, pluralità di toni e pluralità di strati va intesa come compresenza: fino al punto che al lettore è imbandito non solo il sublime accusato o il grottesco accusato, ma il linguaggio qualunque.
Contini 1970, pp. 171-175

Seppur in maniera meno vistosa rispetto all'Inferno, il plurilinguismo dantesco si manifesta anche nelle pagine del Purgatorio, in cui la fa da padrone uno stile medio-elegiaco, più adatto alla materia poetica trattata. A riprova della suddetta stratificazione lessicale, si pensi a come in questo canto siano impiegati conii biblici, termini ed espressioni inerente al campo semantico dell'embriologia e delle scienze naturali medievali, termini ed espressioni tratte dalla filosofia scolastico-aristotelica e addirittura un fiorentinismo quale vizzo “floscio, molle”.
Nonostante l'alto numero di tecnicismi e il contenuto altamente dottrinale, il valore poetico del canto non scema. Dante è un maestro nel giostrarsi tra il registro poetico e quello “scientifico-argomentativo”, e sa quando far ricorso all'uno e quando all'altro: se Virgilio ci dà un chiaro esempio di un procedere poetico; Stazio usa un procedere argomentativo, avvalendosi, qualora necessario, anche di espedienti poetici.

Protagonisti del Canto

Dato per noti i ruoli e la simbologia associata ai vari personaggi principale, si opta per esaminare i protagonisti del canto solo in relazione alla vicenda poc'anzi descritta.

Virgilio e la limitatezza della ragione umana
Si è visto come Virgilio non possa spiegare scientificamente il mistero pertinente alla condizione delle anime nell'aldilà. Questo perché è nato «al tempo de li dei falsi e bugiardi» [Inf. I, 72], prima dell'avvento del Salvatore. Non ha dunque potuto godere di quella grazia divina che conduce l'uomo alla salvezza. Virgilio è dunque l'allegoria della cultura pagana, della ragione naturale al grado più alto raggiungibile senza la Grazia. E in questi versi si riferisce dell'ultimo grande fallimento della ragione naturale: Virgilio deve cedere la cattedra a Stazio nelle vesti della ragione irradiata da Dio.
Il primo fallimento di Virgilio avviene nel canto IX dell'Inferno quando, trovatosi di fronte alle sbarrate porte di Dite, inveisce contro i demoni custodi della città infernale affinché gli sia aperto. Purtroppo i suoi sforzi si rivelano vani e la sua missione di guida  sarebbe fallita se non fosse intervenuto un angelo in loro aiuto. È lampante il senso dell'episodio: nessuno può giungere a Dio in virtù della sola ragione naturale. In tale contesto l'angelo va letto come il simbolo della Grazia.
Per Virgilio il viaggio non può tramutarsi, come per Dante o per le anime dei purganti, in un mutamento: egli è pur sempre, nel bene o nel male, un dannato. Seppur non rilegato all'Inferno, al poeta pagano è negata la possibilità di vedere Dio. Se nei suoi dialoghi con Dante, coi dannati e coi funzionari dell'aldilà (siano essi angeli o demoni), il poeta latino rivela una personalità forte e una natura paterna di pedagogo; non mancano in lui fuggevoli moti d'ira e non mancano neppure momenti d'ingenuità da poeta che causano disagianti rimorsi, ma soprattutto non mancano momenti di scoraggiamento dovuti alla propria condizione:

li occhi a la terra rivolti e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza.
Inf. VIII, 118-119

Nel Purgatorio questi limiti si fanno ancor più marcati: quando vede quelle anime, destinate alla salvezza, non può che provare un amarissimo rincrescimento per la propria condizione, e magari un po' d'invidia.
Nella sua volontà di superare i limiti dell'umano, di giungere all'assoluto (che nella mentalità medievale non può che coincidere con Dio) si può scorgere un che di faustiano: lo sforzo eroico di un uomo desideroso di trasumanare, nonostante la limitatezza dell'intelletto. Ma se Goethe, avendo compreso lo sforzo titanico compiuto da Faust, in una prospettiva ottocentesca squisitamente romantica, fa sì che il suo eroe venga salvato, nonostante la sua anima fosse sul punto di esser trascinata da Mefistofele all'Inferno; Dante-filosofo/teologo, impregnato com'è di quel determinismo escatologico medievale, non può non può far altrimenti. Si pensi a tale proposito a quanto è analogamente accaduto all'Ulisse dantesco.
Ecco dunque come la figura di Virgilio sia ambigua e complessa. Egli è consapevole della propria grandezza: è riuscito ad intuire l'avvento del Messia, tuttavia ha avuto la sfortuna di vivere prima dell'Avvento del Redentore. Un senso di rammarico e di frustrazione rende, pertanto, questo titanico personaggio squisitamente umano.

Stazio: poeta e cristiano. L'anticipatore di Beatrice
Nella realtà storica Publio Papinio Stazio, vissuto dal 45 al 96 d.C., fu un poeta epico e lirico, considerato nel Medioevo tra i più grandi poeti latini. E il suo poema, intitolato Tebaide, costituì per Dante un modello. In questo canto, Stazio ha una funzione analoga a quella dell'angelo, intervenuto quando Dante e Virgilio si trovarono la strada sbarrata verso Dite: quello di aiutare la ratio umana ha superare i propri limiti. È da notare come, se egli può dare una spiegazione così dettagliata sulla natura delle anime, è in virtù del fatto che sia morto in grazia di Dio, o almeno così era ritenuto dai medievali e da Dante. Di quella stessa grazia divina, Beatrice sarà il simbolo.
Ma per delineare la figura di Stazio è necessario fare un passo addietro al Canto XXI di questa cantica, ove avviene il suo primo incontro con Virgilio e Dante. In tale occasione, il poeta napoletano tesse una commossa lode a Virgilio, la cui opera è la «divina fiamma» [Pg. XXI, 95] che ispirò la propria poesia. Segue una terzina che ricalca la lode di Dante per Virgilio nel primo canto dell'Inferno:

de l'Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
senz'essa non fermai pesi di dramma.
Pg. XXI, 97-99

Quando Dante rivela a Stazio che quello che ha davanti altro è proprio il suo diletto maestro, si apre la gaia scena finale in cui i tre poeti sono messi sullo stesso piano, avulsi dal loro contesto storico e culturale. Il dialogo suddetto crea un legame parentale tra Stazio e Dante: entrambi sono “figli” del loro maestro ed entrambi hanno avuto la fortuna di nascere dopo l'avvento di Cristo. Ma tra loro e Virgilio v'è anche una distanza abissale: questi potranno godere dell'eterna gioia data dalla visione di Dio, mentre Virgilio no.

Dante, pellegrino mistico e novello Virgilio
Dante è il pellegrino mistico che compie il suo viaggio di crescita intellettuale e spirituale attraverso i tre regni ultramondani sotto sì valenti guide. Egli è però qualcosa in più rispetto a Stazio: l'opera e il pensiero di Virgilio non rappresentano per lui solo un punto di riferimento. Si pensi alla frase pronunciata da Stazio e rivolta a Virgilio:

Per te poeta fui, per te cristiano.
Pg. XXI, 73

Dante rende il suo massimo omaggio al «dolce padre» per bocca di Stazio-personaggio: come per Stazio, si potrebbe dire che anche Dante lato sensu fu per lui cristiano, giacché utilizzò il modello dell'Eneide, non solo formalmente, ma anche ideologicamente: come l'antico poeta mantovano fece del suo poema il veicolo di grandi valori laici, quali la pietas; la Comedìa si propone di diffondere il Verbo e i valori cristiani.
Nel canto XXI del Purgatorio, così come nel IV dell'Inferno, Dante diviene il continuatore ideale del mantovano e della cultura classica, non come qualcosa di assolutamente in contrasto con la cultura cristiana, bensì come un valore ad essa aggiunto.


II PARTE
Il tema del Canto e il suo contenuto

Il tema dell'anima negli altri canti della Comedìa

Le anime dell'Inferno e del Purgatorio vengono ritratte da Dante con estrema vividezza secondo due prospettive: sulla base di un cosiddetto realismo “psicologico” per cui le anime conservano le passioni e i sentimenti che possedevano in Terra; e sulla base di un realismo “fisico”, il quale fa sì le anime si presentino con “corpi aerei”, fisiologicamente del tutto analoghi alle loro spoglie mortali e, come queste, in grado di patire dolore.
Dante-filosofo e Dante-cristiano ce le presenta come entità fisse e immutabili che vivono eternamente nella gioia o nelle pene; ma il Dante-poeta coglie i personaggi-anima nel momento culminante della loro vitalità. Insomma le anime sono pensate dal Poeta come entità eterne ed extra-mondane, ma sentite e ritratte come esseri viventi.
Nel Canto XXV vengono date le basi teoriche a questo “realismo fisico”, rispondendo a come possano le anime provare dolore e patimento nei regni dell'Aldilà, qualora ormai «sciolte» dal loro corpo. La questione era stata aperta alla fine dell'Inferno quando Dante, passeggiando tra le lande ghiacciate del Cocito afferma di aver pestato involontariamente la testa di un dannato, sommerso per gran parte dal ghiaccio. A ciò seguono le lamentele di quest'anima, al secolo Bocca degli Abati, noto come il traditore di Montaperti, per il dolore aggiunto alla sua pena.
Però, quando nell'Antipurgatorio il pellegrino tenta di abbracciare l'anima dell'amico Casella, i suoi tentativi vanamente falliscono:

Ohi ombre vane, fuor che nell'aspetto!
Tre volte dietro a le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Pg. II, 79-81

Un fatto piuttosto contraddittorio se si pensa a quanto è accaduto precedentemente nell'Inferno. La spiegazione più appropriata è che in questo passo Dante-poeta abbia preso il posto di Dante-filosofo e teologo: costruendo questo espediente malinconico e toccante, l'Autore ha voluto delineare la distanza che separa quelle anime, ormai salve e destinate ad ascendere alla gloria dei cieli, con le anime dei vivi che ancora si devono guadagnare tale fortuna.
Tutto ciò serve comunque ad accrescere la curiositas del Dante protagonista che nel canto successivo chiederà ulteriori delucidazioni a Virgilio. Questi darà un prima spiegazione ai dubbi di Dante asserendo che:

A soffrir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli.
Pg. III, 31-33

La spiegazione di Virgilio rimane un po' nebbiosa: in poche parole ci dice che la potenza divina («Virtù») rende queste ombre diafane ed eteree dei corpi sensibili a patire il caldo e il freddo, nonché a subire i vari tormenti dell'Oltretomba. Ma come tutto ciò avvenga all'uomo non è dato sapere.
È solo nel canto XXV che tutto troverà una spiegazione nelle parole di Stazio,  come si è visto poc'anzi. Come si sarà intuito, e come ci spiega G. Inglese,

il senso letterale della Commedia ha una calcolata costituzione “dinamica”, caratterizzata dal ritorno di temi (spesso rappresentati con parole-chiave) e dal chiarimento a distanza. Dante ha tradotto in strutture testuali d'autore la forma fondativa l'esegesi biblica medievale: la ricerca, nel testo sacro, di episodi paralleli, il più antico dei quali “prefigura” il più “recente”, mentre questo “adempie” a quello.
Inglese 2008: p. 43

I modelli letterari e culturali alla base della concezione dantesca di anima

Introduzione
È pacifico che Dante, come i coevi intellettuali occidentale, basasse la loro formazione culturali principalmente sulle Scritture e sui classici latini. In Occidente (se escludiamo alcune aree grecofone nell'Italia meridionale) era andata pressoché perduta la conoscenza del greco classico: ciò che si sapeva del mondo e della cultura dell'antica Grecia, lo si sapeva attraverso la testimonianza indiretta degli scrittori Latini.
Per quanto concerne nello specifico la Comedìa, non va dimenticato che il solo modello letterario riconosciuto da Dante è l'Eneide. Inoltre l'Autore non menziona mai la letteratura visionaria a lui precedente: è indiscutibile che essa possa aver in qualche modo influenzato il capolavoro dantesco, ma da questa il Poeta sembra prendere le distanze.
Si guardi invece vistose somiglianze col libro VI dell'Eneide:

sbarcato a Cuma, Enea decide di consultare la sibilla; sceso poi agli Inferi, incontra Anchise, che predice la gloria di Roma e indica gli eroi futuri che costruiranno la sua grandezza. Il colloquio con il padre, le cui parole sono caratterizzate dal tono oracolare tipico delle profezie, è preceduto dall'incontro con diverse anime dei morti tra cui Palinuro, Deifobo, Didone. Particolare risalto è dato alle descrizione del Tartaro e dei Campi Elisi.
Carini-Pezzati 2004: p. 21

Come spiega G. Inglese i parallelismi col libro VI dell'Eneide sono lampanti:

Si può ben dire che l'Inferno di Dante, nella sua “piante” e per molte situazioni e figure caratteristiche, sia una rielaborazione di quello virgiliano; che i Campi Elisi siano stati ricreati da Dante in parte nel Limbo ed in parte nell'Eden (secondo Servio, antico commentatore di Virgilio ben noto a Dante, i Campi Elisi si trovano nel cielo della Luna); che l'incontro che l'incontro culminante tra Enea e Anchise sia il modello dell'incontro tra il personaggio Dante e Cacciaguida, episodio in cui culmina la rivelazione del destino personale del protagonista.
Inglese 2008/span>: p. 32

Ma se evidenti sono le prossimità tra le due opere, sono incredibili le distanze che intercorrono tra loro: non solo a livello stilistico-formale, ma soprattutto a livello contenutistico o meglio... filosofico.
Gli Antichi sono sì degni di essere utilizzati come maestri tuttavia, nella concezione dantesca, i moderni possiedono un quid in più: essi hanno potuto godere della Rivelazione di Dio, fattosi carne nel Figlio. I moderni possono così giungere a Dio attraverso il Figlio che rappresenta la «via», la «verità» e la «vita» [Gv. 14. 6]. Gli Antichi invece per quanto meritevoli invece non possono giungere a tanto in virtù della sola ragione naturale. Questo sentimento d'impotenza e rimpianto – già osservato in Virgilio – aleggia in tutti i grandi dell'Antichità, che si sono ritagliati un proprio spazio nel Limbo (Aristotele, Platone, Omero ecc.).
In nuce il Cristianesimo provocò una profonda lacerazione tra il mondo antico e quello medievale-moderno: una lacerazione poco percepita dagli intellettuali medioevali, ma assai visibili agli occhi di un lettore moderno. Sottolineare tutto questo serve ad introdurre come la stessa concessione di anima sia cambiata in Dante rispetto al modello classico-pagano dell'Eneide.
Come afferma Anna Maria Chiavacci Leonardi (2008, pp. 729-720):

Tutto il mondo antico dava infatti ai trapassati una consistenza corporea, anche se umbratile, vuota e labile: essi appaiono nell'Ade com'erano in vita – così Didone, Deifobo – ma svaniscono ombre tra ombre, in una vita dimidiata, pallido riflesso di quella terrena.

Così non è però nel mondo cristiano dove l'Aldilà è la vera realtà, di cui questa vita sulla Terra ne è una pallida prefigura. Le anime nell'oltremondo sono più vive, più reali di prima perché fuori dalla terrestrità e immerse nell'eterno: la loro parte divina e immortale si trova d'un tratto esaltata alla sua massima potenza.

Per capire quanto Dante abbia attinto dal patrimonio antico pagano e di quanto se ne sia discostato, si traccerà una breve storia della concezione di anima nel corso del tempo, soffermandoci soltanto sui quegli autori che, per vie diritte o traverse, hanno maggiormente influenzato il pensiero medievale e dantesco.

L'eredità greca
Il concetto di “anima” è una creazione greca, e noi ne abbiamo seguito l'evoluzione a partire da Socrate che ne fa l'essenza dell'uomo; passando poi a Platone, che ne fonda con prove razionali l'immortalità; fino a giungere a Plotino che ne fa una delle tre ipostasi. Certamente la ψυχή è una delle figure teoretiche che meglio contrassegnano la cifra del pensiero greco e il suo idealismo metafisico. L'uomo, dopo Socrate, ha trovato nell'anima l'essenza vera dell'uomo, non ha saputo pensare se stesso se non in termini di corpo e di anima.
Si sa di come la filosofia platonica abbia radicato un maturo e profondo dualismo in seno al pensiero occidentale: il corpo rappresenta l'ente sensibile di cui è costituito l'uomo, l'anima invece quello sovrasensibile, affine all'intellegibile. Il filosofo descrive spesso il corpo come una «carcere», addirittura come una «tomba» per l'anima: esso è infatti fonti di tutti i mali. In questo senso la morte non può essere che una liberazione. Se il corpo è quanto detto, l'anima è la dimensione intellegibile e metempirica, e per questo incorruttibile, dell'uomo. Inoltre, ciò che immortale non può esser viziato o corrotto: il Male è solo delle cose mondane, finite e destinate a perire: il Male è solo del mondo. La «fuga dal mondo» fa l'uomo simile a Dio - se vogliamo usare un dantismo - lo fa “indiare”.
Infine Platone argomenta in più riprese la tesi dell'immortalità dell'anima. Nel dialogo il Fedone viene spiegato come l'anima possa cogliere le Idee (enti immutabili ed eterne) soltanto perché essa a qualcosa in comune con loro: l'immortalità. Nei dialoghi antecedenti il Timeo, Platone spesso sottolinea come le anime abbiano un inizio ma non una fine.
Riguardo al destino delle anime post mortem, Platone si spiega ricorrendo a molti miti: la trattazione assume la fisionomia di un collage molto frammentario e poco lineare. Si può comunque sinteticamente riportare l'idea espressa dal filosofo nel Fedone e quella espressa più tardi nella Repubblica. In entrambi i casi è centrale il concetto, desunto dai culti orfici e dalla filosofia pitagorica, di metempsicosi o di trasmigrazione dell’anima in altri corpi, anche animali, vegetali o minerali.

L'anima per Aristotele
Diversamente che per Platone, per Aristotele (Stagira, 384 a.C. – Calcide, 322 a.C.) l'anima non è un'idea ma una sostanza che conferisce a un essere la sua forma sostanziale al corpo. Per lo staragita il concetto di ψυχή è molto vicino a quello di ἄνεμος: l'anima viene dunque intesa come un soffio vitale che anima i viventi.
Ma quali sono gli aspetti fondamentali della vita? Il filosofo ne individua tre: il primo riguarda le attività di carattere vegetativo (nascita, crescita, nutrizione e riproduzione); il secondo è inerente alle attività di carattere sensitivo-motorio, come appunto la sensazione e il movimento; infine, il terzo è quello delle attività intellettive come la conoscenza, la deliberazione o la scelta.
Aristotele ha notato come le facoltà vegetative siano presenti in tutti gli esseri viventi, tuttavia, mentre il regno vegetale e quello che oggi è classificato come minerale possiedono soltanto le facoltà vegetative, il regno animale e l'uomo possono compiere azioni di carattere sensorio-motorio, mentre l'uomo inoltre può svolgere anche attività di carattere intellettivo.
Ciò implica una tripartizione dell'anima. V'è un'anima vegetativa, intesa come il principio che governa e regola le attività biologiche in un certo qual senso primarie. La sua funzione principale è quella di presiedere alla riproduzione. V'è poi un'anima sensitiva la quale consente di consentire la percezione dei dati sensibili ed interagire col mondo. Infine v'è l'anima intellettiva che presiede alle facoltà quali la fantasia, la memoria e l'esperienza.
Orbene, l'intelletto nel momento d'inerzia (quando non stimolato da forme intellegibili) è detto intelletto potenziale; mentre l'intelletto nell'atto di cogliere e far tesoro dei dati intelligibili è detto intelletto attivo. È bene tenere a mente quanto qui detto, poiché nel Medioevo si parlerà di intelletto possibile (per indicare l'intelletto potenziale) e di intelletto agente (per indicare quello attuale). Si ricordi anche come per Aristotele l'intelletto agente sia insito nell'anima, nonostante esso provenga, in un certo qual senso, dall'esterno: giacché esso trascende il sensibile, è irriducibile al corpo per sua stessa natura, natura in cui si trova qualcosa di divino.
Come si è visto la tradizione platonico-pitagorica e quella aristotelica (quindi la maggior parte della filosofia greca) hanno ritenuto l'anima per sua natura immortale. Inoltre pressappoco tutti i filosofi antichi erano concordi circa l'immortalità dell'anima: in ciò si può leggere un punto di contatto col pensiero cristiano.

L'anima presso i latini
I Romani, differentemente dai Greci, dimostrarono da sempre una certa tendenza al pragmatismo, congiunta ad una scarsa inclinazione alla speculazione astratta. A riprova di quando asserito si riporta un passo del De rerum natura in cui il grande poeta-filosofo Lucrezio enuncia l'indecifrabilità dell'anima coi pochi versi che seguono:

ignoratur enim quae sit natura animai,
nata sit an contra nascentibus insinuetur
et simul intereat nobiscum morte dirempta
an tenebras Orci visat vastasque lacunas
an pecudes alias divinitus insinuet se.
De rerum natura, I, 112-116

Esistevano numerose speculazioni che parlavano nel modo più dettagliato della sopravvivenza dell'anima e del suo destino nell'Aldilà, ma esse rimanevano legate singolarmente a piccole sette; nessuna dottrina di generale risonanza insegnava che ci fosse nella morte nient'altro che il cadavere. In mancanza di una dottrina comune, non si sa cosa pensare e quindi non si suppone e non si crede nulla.
Sintetizzando si può dire che tra le fasce meno abbienti si pregavano gli dèi, non per un'esigenza spirituale, ma per ricevere favori. Per quanto riguarda la classe dotta, essa, nutritasi coi testi di Aristotele e Platone, da un lato trovava per lo meno buffi gli dèi tradizionali, dall'altro vedeva quelle figure sovrannaturali con simpatia: le consideravano il modo un po' infantile con cui il popolino percepiva l'esistenza di ciò che stava più alto e più grande: la Fortuna, il Caso o la Provvidenza. Ecco perché con l'eccezione del De rerum natura, tutti i grandi classici latini mantengono sostanzialmente un atteggiamento conservativo nei confronti della religione tradizionale, nonostante talvolta si assista a battute mordaci contro quest'ultima. Per quanto concerne l'aspetto cultuale della religio, le pratiche religiose e i riti faranno sempre parte della civiltà romana nella sfera del quotidiano e riguarderanno anche i dotti, che li praticheranno come abitudini consolidate.
Ma gli intellettuali medievali e Dante ignoravano quest'aspetto della religio romana. Essi ricostruivano la spiritualità dei Latini solo mediante i testi, senza rendersi conto di come il Cristianesimo rappresentasse una rottura tra il mondo degli antichi e quello dei moderni.

L'anima dopo l'avvento del cristianesimo
Quando, tra la fine del 49 e l'inizio del 50 d.C., Paolo di Tarso giunse ad Atene, destò sùbito l'interesse dei cittadini e degli stranieri residenti là con le sue predicazioni sulla nuova religione. Tra gli interessati v'erano anche filosofi epicurei e stoici che si chiedevano cosa andasse dicendo quello σπερματολόγος (“ciarlatano”). Paolo fu così condotto a tenere le sue prediche nell'Areòpago. In tale occasione tenne uno dei suoi più celebri discorsi. Paolo iniziò annunciando al suo pubblico come, vagando lungo le vie della città, avesse visto una statua «al Dio ignoto». Orbene egli di quel Dio affermò di sapergli dare un volto: egli è l'unico Dio creatore dei cieli e della terra, nonché di tutti gli uomini e della loro progenie, lo stesso Dio di cui andava predicando. Fin qui gli Ateniesi non si fecero problemi: del resto il politeismo caratterizzante il paganesimo greco e romano lasciava la porta aperta ad eventuali nuovi dèi, non facenti parte del pantheon tradizionale.
Ma appena

sentirono parlare di resurrezione dei morti alcuni lo canzonarono, altri dicevano: «Su questo torneremo ancora un'altra volta». Così Paolo se ne uscì di mezzo a loro.
At. 17, 32

Il fatto che il corpo sarebbe risorto anch'esso dopo la morte, costituiva infatti qualcosa di sconvolgente e assurdo. Si è osservato come la concezione platonica che vede nel corpo un «carcere», una «tomba» per l'anima, la fonte di tutti i mali. Lo stesso Plotino, continuatore del pensiero platonico, dirà in aperto contrasto col pensiero dei primi cristiani:

quanto di anima è nel corpo non è altro che anima addormentata; e il risveglio verace consiste nella resurrezione – quella vera resurrezione che è dal corpo, non col corpo; poiché risorgere con un corpo equivale a cadere da un sonno in un altro, a passare, per così dire, da un letto ad un altro: ma il vero levarsi ha qualcosa di definitivo: non da un corpo solo ma da tutti i corpi; i quali son proprio radicalmente contrari all'anima: onde spingono la contrarietà fino alla radice dell'essere. Ne dà prova sinanche il loro divenire, il loro scorrere, il loro sterminio, che non rientra certo nell'ambito dell'essere.
Cit. in Reali-Antiseri 1983, pp. 229-30

Col Cristianesimo, insomma, il rapporto anima e corpo si complica.

Da Averroè commentatore del De anima a Cavalcanti
Ibn Rushd (Cordova 1126 – Marrakesh 1198), noto in Occidente come Averroè, fu considerato presso gli intellettuali europei il più grande commentatore di Aristotele. La sua fama in Europa è attestata dal numero dei suoi traduttori.
Nel suo commento al libro III del De anima di Aristotele, è esposta la sua teoria del cosiddetto «intelletto unico». Secondo tale teoria, l'intelletto umano è bipartito: da una parte c'è l'intelletto possibile irradiato direttamente da Dio, immortale e non individuale (attraverso cui conosciamo e formuliamo nozioni e princìpi universali); dall'altro l'intelletto agente (che agisce sulla fantasia e sull'immaginazione e dunque è la sede delle facoltà che operano sui dati sensibili), il quale è individuale e non agisce direttamente sull'intelletto possibile. Mentre l'intelletto possibile sopravvive alla morte, l'intelletto agente perisce col corpo.
Tale considerazione creò un forte sconcerto tra l'intellighenzia europea la quale, pur nutrendo un altissima considerazione per il pensatore arabo, era interdetta per il suo andare contro uno temi cardine del pensiero cristiano: l'immortalità dell'anima individuale. E le polemiche non tardarono a farsi sentire.
Ciò nonostante Averroè non mancò di influenzare i maggiori letterati italiani (o meglio fiorentini) del XIII secolo: Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. Cavalcanti, in virtù delle sue argomentazione tanto stringenti, sulla base di una teoria tanto esplosiva qual era quella dell'intelletto unico, la canzone-manifesto Donna, me prega si vestì di un respiro europeo che superò il contesto municipale e ristretto dell'intellettualità fiorentina.
Nella concezione calvacantiana l'intelletto amante non si limita a vagheggiare le belle sembianze della donna angelicata, come nella poesia di Guininzelli o in quella di poeti minori, toscani o bolognesi: dalle sembianze della donna amata l'intelletto estrae l'idea stessa di bellezza. Siffatta astrazione non resta all'interno della mente e, giacché diviene portatrice di desideri «oltra misura di natura», provoca sconquassi, turbamenti e dolore nell'amante. Questo amore è un sentimento che nasce all'interno dell'anima sensitiva e non è il frutto di una meditazione intellettiva; ne è prova il fatto che porti alla perdita della parola, la massima espressione della ragione umana:

l'istante dell'innamoramento ha distrutto l'atto dell'intelletto agente, e questo ha ancora una sola possibilità: ricevere l'immagine della donna all'interno dell'intelletto possibile. Ma il risultato è […] una passione turbinosa che non si consuma nelle cose, mai e poi mai nei sensi, recando una profonda angoscia interiore, priva ormai di possibilità conoscitive concrete, e condannata a patire, senza soluzioni esterne, il dissidio tra ciò che ha subìto una parte del suo intelletto e il silenzio, il vuoto, dall'altra parte, che non ha voce, non può erigersi a canto dell'anima.
Petrocchi 2007: pp. 256-61

Significativo su quanto concerne la sua concezione sulle posizioni filosofiche di Cavalcanti è quanto ci dice Boccaccio nella nona novella del sesto giorno, una novella interamente incentrata sulla figura del poeta:
e per ciò che teneva l'oppinione degli epicurei, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cerca se trovar si potesse che Dio non sì fosse.
Per quanto il termine “epicureo” nell'accezione medievale e popolare avesse un valore assai amplio (stigmatizzando tutti coloro che «l'anima col corpo morta fanno» [Inf. X, 14] in un'unica categoria) resta comunque significativa.

Dante fa i conti col passato

Si è visto come Dante faccia i conti con la lunga e collaudata tradizione aristotelica, rispondendo a molte questioni lasciate aperte da Aristotele: questo intelletto agente è individuale? Come può provenire dall'esterno? È completamente sottratto a qualsiasi destino escatologico? Che senso ha il suo sopravvivere al corpo?
Fa poi di più: mette il punto ad un problema a lungo dibattuto dalla filosofia e dalla teologia del tempo: come possano le anime soffrire pene corporee. E non era un problema da poco: occorreva far conciliare il fuoco di cui parla la Bibbia con la teoria dell'anima separata, secondo cui essa non può avere sensibilità corporea. Occorreva dunque spiegare come l'anima potesse mantenere una sua qualità “materiale” quando scissa dal corpo. E Dante lo fa nei modi di cui è stato precedentemente trattato.
Dante infine corregge, per bocca di Stazio, un uomo «più savio» di lui: Averroè, il quale per risolvere il problema di «come d'animal divegna fante» sosteneva che l'anima intellettiva fosse disgiunta da quella sensitiva. Ciò

veniva a negare, tra l'altro, l'immortalità dell'anima individuale (infatti, la parte immortale dell'uomo era da lui disgiunta, unica per tutta la specie umana, non generabile e non corruttibile) e non poteva quindi esser accettata dalla teologia cristiana.
Chiavacci Leonardi 2008: pp. 727-33 n. 46-8

Ma superare le posizione le posizioni di Averroè significa anche recidere l'ultimo ponte che lo legava all'amico Cavalcanti: in poche parole, se per Cavalcanti Amore costituiva un binomio con Morte; in Dante Amore diviene il mezzo attraverso cui giunge alla Vita: la vera vita, cioè Cristo. La donna, in questo caso Beatrice, non ha semplicemente le sembianze di un angelo, ma come un angelo diviene lo strumento di Dio per farlo giungere ai Cieli.
Un tale cambio di prospettiva aveva condotto Dante alla cosiddetta svolta “classicista” che gli ha consentito di superare le ristrettezze formali e concettuali dello Stilnovismo. Si tratta di un classicismo non manieristico: così come i classici (e nello specifico l'Eneide) si facevano portatori dei grandi valori e dei grandi ideali pagani; allo stesso modo il poema dantesco si fa portatore di quelli cristiani. Tale svolta è evidente nel Canto X dell'Inferno, quando Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido, chiede a Dante-personaggio:

Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov'è? e perché non è teco?
Inf. X, 58-60

Cavalcante, essendo un dannato, ignora valori che non siano quelli umani e pensa che Dante compia tale straordinario viaggio solo in virtù del suo eccellente ingegno: però se stessero così le cose, dovrebbe trovarsi insieme a lui anche Guido, il quale non gli era affatto secondo. A questa domanda Dante replica la misteriosa risposta, tuttora oggetto di studio da parte della critica,

Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.

Inf. X, 61-63

Nell'affermare che non viene da solo, Dante evidenzia tutto il distacco che v'è tra i due: è solo per la grazia di Dio che può compiere questo viaggio. In molti oggi leggono nel pronome cui Beatrice, il che sembrerebbe dire che Cavalcanti ebbe a dispregio la stessa grazia divina, rimarcando così il suo ateismo. Di questo avviso è ad esempio Chiavacci Leonardi. Ma tutta l'esegesi tradizionale che vuole che quel pronome relativo indefinito si riferisca a Virgilio non è da accantonare: il dispregio per Virgilio potrebbe simboleggiare il rifiuto da parte di Cavalcanti della nuova svolta classicista dantesca. Ad ogni modo, a ben guardare le due interpretazioni paiono entrambe valide: forse Dante ci ha lasciato di proposito aperto questo dubbio.

Una cosa è comunque certa, insieme ad alcuni dubbi, il Sommo Poeta ci ha lasciato anche la sua visione grandiosa e profonda in termini che si possono definire, da una parte, antropologico-filosofici e teologici e, dall'altra, esistenziali e spirituali. Infine pur nello stretto legame di continuità con l'antichità (soprattutto con l'aristotelismo e, in altra misura, col neoplatonismo), Dante segna in questo canto un passaggio importante nella deriva storica del pensiero occidentale e, in particolare, della filosofia cristiana: ha reso conciliabile la natura immateriale dell'anima col suo esser soggetta alle vicissitudini dell'Aldilà, ponendo fine ad una lunga diatriba.

Bibliografia

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  • P. Veyne, La vita privata nell'Impero romano, Laterza, Bari 2006

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Il canto XXV del Purgatorio: spunti per una riflessione sull'anima by Marco Luchi is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.
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2 commenti:

  1. Carissimo, per rimediare al precedente errore e per rimpolpare il thread, ti rispondo qui.
    Allora, Dante è un grandissimo, ma devi sapere che per il Petrarca ho una predilezione, non fosse altro che aveva ottimi gusti in fatto di nomi da donne ;-)
    Se non ci sei già stato, ti straconsiglio una gita ad Arquà Petrarca (PD). Il paesino, molto carino (è inserito nella lista dei 100 borghi più belli d'Italia eccetera), riserva delle gustose sorprese. Io e Lorenzo ci capitammo di ritorno da un soggiorno termale, con il preciso intento di visitare la casa del Petrarca. La trovammo chiusa (era il 1° maggio... la bella idea di tener chiusi dei luoghi di interesse turistico nei giorni di festa la dice lunga sulla capacità italiana di valorizzare le proprie risorse...) ma il giretto non fu vano poiché incontrammo per le vie del paese un soggetto surreale, vestito trecentesco di tutto punto, che scancherava davanti a una bancarella di souvenir e cimeli fascisti: grasso, paonazzo e visibilmente ubriaco, blaterava in veneto stretto e cantava canzonacce. Penso che il Petrarca avrebbe apprezzato un alter ego di così alto profilo. Noi sicuramente l'abbiamo stimato molto.

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    1. Meno male che ci sei tu a “rimpolparmi” i thread: se non fosse per te e pochi altri (come il Gori, il Marinajo e la sua consorte), il mio blog sarebbe deserto...
      Anch'io prediligo il Petrarca, per due motivi: da una parte, per bieco campanilismo; dall'altra, perché non riconduce tutto a un'unica verità. In ciò Petrarca è più moderno di Dante: insomma, il buon Alighieri incarna un medioevale mondo di certezze socio-politiche ed escatologico-teologico-dottrinali; un mondo grandioso, non ci piove, ma molto lontano dal nostro modo di vedere le cose. Peccato che, quando dico questo, la gente storce il naso. (Maledetto Benigni! È colpa tua se c'è un'immagine distorta del sommo poeta...) In ogni caso il mio non è un giudizio di valore sulle rispettive opere, ma una personale costatazione.
      Ad Arqua non sono mai stato, so solo che Petrarca è morto là. Invece, qui ad Arezzo, c'è la casa in cui si dice sia nato. Pure quella l'ho trovata spesso chiusa. :p

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