mercoledì 19 febbraio 2014

Storia romana (seminario) - a.a. 2011/2012


J. M. W. Turner, Ovid Banished from Rome (1838),
olio su tela, collezione privata.
Da The Athenaeum, via WikimediaCommons

“Carmen et error”: disamina sulla relegatio dell'esule Ovidio


di Marco Luchi

Relazione del corso
Storia romana (seminario)
prof.ssa Sandra Gozzoli
a.a. 2011/2012

Premessa metodologica

Con Ottaviano cambia la prassi dell'exilium e uno dei nomi più celebri a farne le spese fu  Publio Ovidio Naso (Sulmona, 43 a.C. – Tomi, 17 a.C.). Studiare la sua esperienza al confino da una prospettiva prettamente storico-biografica presenta svariate insidie: il poeta, al pari di Orazio e di Virgilio, non fu dimenticato neppure nei momenti più bui del medioevo, anzi in quell'epoca fu oggetto di un vero e proprio culto da parte di chierici e laici, e i suoi testi furono imitati e rielaborati, moralizzati e letti in chiave mistico-allegorica. In tale contesto, il poeta finì, allo stesso modo di Virgilio, per essere considerato dapprima un mago e/o filosofo, infine un profeta. Pertanto, per ricostruire l'esperienza delle esilio, e più in generale la vita, del poeta non possiamo ricorre alle fonti medievali, poiché di scarsa di veridicità storica.
Le fonti a lui più vicine sono scarse e non paiono esaustive: possiamo infatti contare solo sulle attendibili notizie riferiteci da Seneca il Vecchio (Controv. II 2, 8-9; II 2, 12; VII 1, 28; IX 5, 17; X 4, 25; Suas. III 7) e da Girolamo (Chron. ad Ol. 184, 2; ad Ol. 199, 1). Non resta quindi che affidarci a quanto il poeta dice di sé nella sua opera, specie nel II libro e nell'elegia IV 10 dei Tristia. Pure qui non mancano le insidie: come possiamo stabilire dove finisce l'episodio autobiografico e dove inizia l'invenzione letteraria? Non si dimentichi poi che «nelle apologie avvocatesche non mancano le esagerazioni e le inesattezze (e Ovidio non fa certo eccezione)». Tuttavia ciò non deve impedirci di confrontarci coi suoi scritti, ritenendo aprioristicamente che sia impossibile estrarre dati storici da fonti siffatte; bensì deve incentivarci alla massima cautela prima di formulare qualsiasi affermazione.

Differenze tra l'exilium in età repubblicana e la relegatio in età augustea

Per evidenziare i mutamenti verificatisi nelle modalità di esilio durante il regime augusteo è necessario chiarire in modo preliminare i suoi tratti caratteristici in età repubblicana. Diamo perciò un'occhiata alla definizione di “esilio” data da Cicerone (In Caec. 34, 100):
Exilium enim non supplicium est, sed perfugium portusque supplicium.
Dunque, perlomeno fino all'età tardo repubblicana, esso si configurava come una libera scelta: la fuga alla volta di lidi più sicuri era un escamotage operato dal presunto reo per evitare pene ben più gravi, quale quella capitale.
Ciò non significa che la libera scelta non potesse trasformarsi in una pena, specie a questa si aggiungeva l'interdictio acquae et ignis. A tale proposito, Lucilio (XXVIII, 784-790) poeta satirico latino del II sec. a.C., dice:
hoc cum feceris,
cum ceteris reus una tradetur Lupo.
non aderit: ἀρχαῖς hominem et stoechiis simul
priuabit, igni cum et aqua interdixerit.
duo habet stoechia, adfuerit anima et corpore
(γῆ corpus, anima est πνεῦμα): posteribus
stoechiis, si id maluerit, priuabit tamen.
Possiamo concludere, pertanto, sottolineando come gli esuli romani scegliessero il luogo ove recarsi sulla base, grosso modo, di tre criteri: (1) la sicurezza del posto; (2) la vicinanza con Roma; (3) l'interesse personale di chi decideva di allontanarsi.
Col regime augusteo la situazione cambia. Le persone non sono più libere di scegliere il luogo dell'esilio: questa decisione spetta all'imperatore che, spesso e volentieri, inviava ogni soggetto potenzialmente pericoloso nel posto in cui avesse nociuto di meno. Tale aspetto va sottolineato con forza: Ovidio non si è allontanato sua sponte per evitare una condanna, ma per disposizione di Ottaviano il quale era personalmente risentito col poeta a causa dei suoi celebri duo crimina.
La pena col quale venne punito fu la cosiddetta relegatio in insulam: gli fu imposto il confino ai margine dell'impero, ma conservava la cittadinanza romana e il suo patrimonio. Come ogni forma di esilio era applicata per le classi superiori: le classi inferiori, infatti, erano punite o coi lavori forzati (in opus publicum o in metalla) oppure con la morte. In principio era un semplice atto amministrativo,  decretato da un magistrato come misura coercitiva, finalizzato all'espulsione di un cittadino romano o di peregrinus. Ricordiamo, infine, che veniva applicato come pena nei processi in diverse gradazioni.

Il processo ad Ovidio e il facinus del misterioso “Ibis”

Da un passo delle Epistulae ex Ponto si desume che il poeta si trovasse nell'isola di Ilva (odierna Elba) con l'amico di vecchia data M. Aurelio Cotta Massimo, quando a quest'ultimo giunse la voce della sua culpa.
Ultima l'Elba fumosa mi vide con te e raccolse
le lacrime che cadevano dagli occhi tristi,
quando, alla tua domanda se fosse vera la notizia
portata dalla cattiva fama della mia colpa
ero bloccato dall'incertezza tra il confessare e il negare,
mentre il timore rivelava segni di spavento
e le lacrime sgorgavano e scendevano per il volto attonito
come la neve che è sciolta dal vento del Sud che porta la pioggia.
Ricordo pertanto questi eventi e vedendo che la mia colpa
può restare nascosta sotto il perdono del mio primo errore,
ti volgi a guardare il vecchio amico in difficoltà
e aiuti le mie ferite con i tuoi lenimenti.
Ov. Pont. II 3, 84-95 (trad. di L. Galasso)
Cotta prese a cuore la condizione dello sciagurato al punto  da fargli sperare di poter essere perdonato da Augusto. Questo fu l'ultimo momento in cui i due si videro, poiché, quando Ovidio ritornò in patria, fu per l'ultima volta prima dell'esilio.
Si è supposto che Ovidio abbia ricevuto l'edictum della relegatio quando si trovava nell'isola:
Non appena tuttavia hai udito l'origine della mia disgrazia
dicono che tu abbia pianto sul mio errore.
Ov. Pont. II 3, 65-66 (trad. di L. Galasso)
L'espressione cladis origo è stata letta come un perifrasi per indicare decreto di espulsione e si è notato come il verbo diceris implichi che il poeta non fosse presente durante la sua emanazione. Il nuntius (v. 85) sarebbe dunque un messaggero in carne ed ossa che ha convocato il poeta in patria per essere chiamato a giudizio o ricevere la punizione.
Il II libro dei Tristia ci aiuta a comprendere meglio le modalità dell'espulsione:
Né il mio esilio è stato ordinato da un giudice scelto;
investendomi con crude parole – così era degno di un principe –
tu stesso hai vendicato, come si conviene, le tue offese.
Inoltre l'editto, quantunque duro e minaccioso,
tuttavia fu mite nel nome dato alla pena:
infatti in essa sono detto relegato, non esiliato
e vi adoperi parole apposite per la mia sorte.
Ov. Trist. II 131-138 (trad. di R. Mazzanti)
Dal passo possiamo evincere due aspetti significativi:
  • in primis, il fatto che Augusto non ha condannato il poeta né con un decreto del Senato, né con un'ordinanza di un iudex sceltus;
  • in secondo luogo, la natura dell'editto imperiale che, seppur aspro e minaccioso, è stato mite nella designazione della pena: «relegatus», specifica il poeta , «non exul» (v. 137), dando con una certa ironia prova della clementia dell'imperatore.
L'espressione «ultus es offensas [...] ipse tuas» (v. 134) suggerisce che il giudice fosse Augusto stesso e che per la sua espulsione si avvalse di un edictum.16 L'espressione «ut decet» (v. 134), ulteriore precisazione circa la clementia del principe, è velata d'ironia: Augusto è ricorso a una condanna arbitraria e non regolare, in quanto ha impedito al poeta di difendersi in un processo pubblico. Del resto, lo iudicium publicum era un'istituzione repubblicana.
Le corti giudiziarie, ognuna permanente, erano separate e assegnate alle diverse categorie dei crimini gravi (omicidio, corruzione, adulterio ecc.). Prima che il poeta potesse essere posto a giudizio di una corte che possedesse la giurisdizione sul suo crimine, occorreva adempiere a una serie di lungaggini burocratiche: qualcuno, in veste di privato cittadino, avrebbe dovuto ottenere una permesso ufficiale dal presidente di quella corte di sporgere un'accusa formale contro di lui e, solo in un secondo momento, questa accusa sarebbe stata trasmessa per iscritto al pretore che presiedeva alla corte. Nei processi pubblici le due parti avevano qualche diritto nello scegliere i membri della giuria (trenta o più cittadini tra senatori, cavalieri e ufficiali minori) che attraverso la votazione esprimevano l'esito del processo. Il giudice non aveva il diritto di voto e il suo scopo era quello d'imporre la pena prescritta dalla legge sulla base delle colpe di cui si era macchiato il reo. Nulla sembra avvalorare l'idea che, nel nostro caso, sia stato seguito quest'iter.
Pertanto il poeta potrebbe essere stato vittima della cosiddetta cognitio extra ordinem, un modello di processo in cui il magistrato aveva le mani molto più libere e la burocrazia era ridotta al minimo: in questo caso non c'era bisogno che un privato cittadino avesse registrato un reclamo, poiché l'accusatore era considerato alla stregua di un testimone. Il giudice, inoltre, poteva intensificare o mitigare la pena a sua discrezione. È natura che tali processi implicassero, oltre a un crimine piuttosto serio, una giuria altolocata, composto dalla classe senatoria e dai consoli. In questa categoria di processi la corte suprema era presieduta dall'imperatore in vece di giudice assieme a dei consiglieri che votavano per forma.
Questa tipologia di processi era applicata per casi di laesa maiestas o di adulterio. Ma tutti i tentativi di far rientrare la culpa di Ovidio nell'una o nell'altra tipologia di reati non si sono mai dimostrate molto solide. Probabilmente era giunto a conoscenza di qualcosa di scomodo, che doveva rimanere segreto ai fini di salvaguardare la privacy augustea. Non è quindi un caso che l'imperatore in persona riferì dell'esilio, non attraverso un documento scritto, ma tramite un discorso orale, come suggeritoci dall'espressione «tristibus uerbis» (v. 133): al poeta, insomma, fu forse concessa un'udienza formale e fu sentenziato dall'imperatore stesso.
Quando Ovidio cadde in disgrazia, alcuni falsi amici ne approfittarono per arricchirsene: contro uno di questi si scaglia nel poemetto intitolato Ibis. Il poeta afferma di aver scritto l'Ibis quando aveva cinquant'anni e La Penna conferma questo dato, evidenziando:
  • in prima istanza come il componimento implichi la relegatio del poeta (8 d.C.);
  • in seconda, come l'opera fosse stata con ogni probabilità scritta prima del 12 a.C., ovvero l'undicesimo lustro del poeta.
L'invettiva in questione potrebbe essere indirizzata a personaggio reale, che sperava di spogliare il poeta di ogni suo bene e di lasciarlo bisognoso presso i Barbari.22 Il tentativo di appropriarsi delle sostanze del poeta fu scongiurato dalla moglie e dall'aiuto di fortes amici (Ib. 15; Trist. I 3, 102).23
L'idea di una delazione compiuta ai danni del Ovidio ci è suggerita da un passo dell'Ibis:24
Non sinit exilio delituisse meo ;
Vulneraque inmitis requiem quaerentia uexat,
Iactat et in toto nomina nostra foro
Ov. Ib. 12-14
Un altro passo dalla stessa opera
sic mea nescio quis, rebus male fidus acerbis
in bona uenturus, si paterere, fuit.
Ov. Trist. I 6, 14-15
suggerisce invece un attentato, ai limiti della legalità, ai suoi patrimoni.
Nel proseguo del testo, il misterioso “Ibis” assume i connotati di un nemico insidioso che vuole far cadere la culpa di Ovidio tra quelle lesive della maiestas e farlo punire con l'exilium vero e proprio, il quale avrebbe comportato o la pubblicatio bonorum (vale a dire la confisca dei beni), oppure la vendita di essi da parte dello Stato: un'eventualità che sicuramente avrebbe giovato ai delatori. La persecuzione cui il poeta fu sottoposto sembra connessa all'accusa su cui fu condannato da Augusto:
Nititur , ut profugae desint alimenta senectae .
[...]
Di melius ; quorum longe mihi maximus ille est,
Qui nostras inopes noluit esse uias.
Ov. Ib. 21, 23-24
Dal passo si evince come Augusto, nella sua clementia, alla pena non avesse aggiunta l'interdictio acquae et ignis che prevedeva la confisca dei beni.
“Ibis” potrebbe essersi recato, in privato, da Augusto e averlo spinto a imporre al poeta una pena più severa. Resta un problema: come avrebbe potuto aspettarsi ragionevolmente una ricompensa in qualità di delatore in un caso già giudicato? Non ci è dato saperlo. Di fatto però deve avere riferito all'imperatore qualcosa che lo fece adirare molto, perlomeno stando a quanto ci viene riferito da Ib. 19:
Et qui debuerat subitas extinguere flammas.
Ci sono numerosi riferimenti a “Ibis” nelle opere dell'esilio, ma essi non ci forniscono nulla per capire le basi legali attraverso cui poteva ottenere le proprietà del poeta.
Non manca chi ha negato la possibilità che dietro il personaggio si celasse una figura  realmente esistita; o chi, pur ammettendone l'esistenza, ha ritenuto che Ovidio avesse di questi solo nozioni imprecise. In realtà entrambe le tesi sono compatibili: «ogni personaggio poetico - scrive La Penna - è in parte è sempre finzione».
Sempre secondo La Penna, la frequenza di espressioni come nescio quis (Trist. I 6, 13), quisquis (Ib. 9) e simili riferite a “Ibis” nel primo e nel terzo libro dei Tristia, ovvero in opere scritte prima della primavera del 10 a.C., rivelano che all'epoca il poeta poco sapeva circa l'identità di “Ibis”; ma il fatto che nel IV libro dei Tristia e nell'Ibis conosca il nome del traditore e addirittura sia pronto a rivelarlo,
Si licet et pateris, nomen facinusque tacebo,
Ov. Trist. IV 9, 1
ci testimonia che durante il 10 d.C. gli pervennero ulteriori informazione sul suo nemico.

Le epistulae dell'esilio: i tentativi di essere perdonato

L'esperienza della relegatio non fu priva di effetti collaterali su ogni aspetto della vita di Ovidio, tant'è che sul piano letterario segnò uno spartiacque tra le due fasi della sua produzione letteraria. Frutto di questa esperienza sono i Tristia e le Epistulae ex Ponto, due raccolte di epistole liriche, composte rispettivamente tra l'8 e il 12 d.C. e tra il 12/13 e l'estate del 16. Soprattutto nelle seconde,
Ovidio attua una ricodificazione della “poesia di corteggiamento”: il poeta elegiaco, per sconfiggere il rivale ricco, prometteva fama eterna alla sua donna con il canto; l'esule, per rientrare a Roma, si impegna a garantire una gloria perenne a chi si sarà adoperato in suo favore.
Cit. da Galasso 2008, pp. IX-X.
Per realizzare ciò, spiega Galasso, occorre assumere «l'atteggiamento che ha il poeta cliens nella sua relazione con il patronus».
Il poeta mette in atto una “logica ricattatoria” nei confronti dei suoi destinatari e dello stesso principe. Mostrando ai destinatari una galleria di modelli comportamentali, Ovidio impone loro modelli etici ben precisi (la buona moglie, il buon amico, il buon patronus ecc.) e li trasforma in figure esemplari. Frattanto fa sì che non possano venir meno a una così alta rappresentazione. Pure l'imperatore, dipinto come il vertice della clementia, non può sottrarsi a questa logica: non risulterebbe incoerente all'immagine costruitasi di sé (e riproposta in queste elegie), se si rifiutasse perlomeno di mitigare la pena a un uomo, la cui unica colpa non è certo uno scelus?
Del resto, il fine delle epistole spedite da Ponto era quanto mai pratico e utilitaristico.36 Ciò è testimoniato dai seguiti due versi:
Concedi il tuo favore a scritti a scritti che ho composto
non per la gloria, ma per l'utilità e i doveri sociali.
Ov. Pont. III 9, 55-56 (trad. di L. Galasso)
La strategia di scrivere lettere dal luogo di esilio si era rivelata una strategia vincente per taluni personaggi politici in età repubblicana (è il caso Quinto Cecilio Metello che nel 106 a.C., soprannominato Numidico dopo essere uscito vincitore dalla battaglia di Muthul). Tra l'altro alcuni dei corrispondenti di Ovidio hanno ricevuto pure lettere in prosa:
Mai però abbiamo smesso di scambiare tra noi
lettere prive di ritmi, che facevano il loro dovere.
Ov. Pont. IV 2, 5-6 (trad. di L. Galasso)
Purtroppo per Ovidio, il suo tentativo di tornare in patria fallì.

Cartina fisica della Romania.

Tomi: il luogo dell'esilio

Fondata dai Greci di Mitilene nella seconda metà del VII sec. a.C., Tomi (attuale città rumena di Costanza) era contraddistinta dalla forte escursione meteorologica tra le elevate temperature estive e le rigide temperature invernali, tali da ghiacciare le acque del Danubio e alcuni tratti del Mar Nero settentrionale e orientale vicino alla costa:
Ma quando il triste inverno ha affacciato lo squallido volto,
e la terra si è fatta candida di marmoreo gelo,
mentre Borea e la neve si apprestano a dimorare sotto l'orsa,
allora si vedono queste genti oppresse dal polo che trema.
[…]
Così quando la prima non si è ancora dissolta, cade
la seconda e suole in molti luoghi rimanere due anni;
ed è tanta la violenza di Aquilone quando si scatena
che abbatte le alte torri e via si porta i tetti divelti.
Con pelli e brache cucite si difendono dai freddi maligni
e di tutto il corpo solo il viso rimane scoperto.
Spesso per i ghiaccioli pendenti tintinnano scossi i capelli,
e brilla la barba, bianca per il ghiaccio che la ricopre:
gela il vino e resta nudo serbando la forma del vaso,
e non bevendo sorsi ma pezzi distribuiti di vino.
E che dire dei ruscelli gelati dalla morsa del freddo
e dell'acqua che a frantumi si estrae dagli stagni?
L'Istro stesso che, non più stretto dal fiume che cresce
i papiri, si mescola con molte bocche al vasto mare,
quando i venti induriscono i suoi flussi cerulei
gela e serpeggia al mare con le acque coperte dal ghiaccio.
Ov. Pont. IV 10, 9-12, 15-30 (trad. di R. Mazzanti)
Tra l'altro nella regione, esposta ai forti venti settentrionali, la flora non era certo rigogliosa; per non parlare della pessima qualità delle acque dovuta alla loro natura paludosa.
Benché quanto narrato intorno al clima della zona sia reale, non va scordato che il poeta tende a enfatizzare taluni aspetti: «il freddo - scrive Galasso - non dura sempre e la neve non permane per due anni senza soluzione di continuità». Le descrizioni ambientali inoltre si modellano per aemulatio su quelle che Virgilio offre della Scizia.
Per quanto riguarda la situazione politica di Tomi in età augustea, ricordiamo che essa era sotto la protezione delle milizie romane e del re di Tracia, vassallo dei Romani. Le città greche della zona continuarono a costituire un κοινόν, esistito fin dal II-I sec.  a.C., di cui Tomi dovette essere la capitale a partire dall'età di Claudio. Sul piano istituzionale, la città era organizzata come una repubblica governata da un senato, mentre, sul piano etnodemografico, era abitata da una popolazione prevalentemente greca. Era inoltre il porto principale sulle rive occidentali del Mar Nero e, pertanto, v'era un notevole volume di traffici. Sebbene sia indiscutibile il dato storico per cui nell'entroterra delle colonie greche si erano stabilite varie popolazioni barbariche, è pur vero che tutta una serie di affermazioni ovidiane risultino eccessive.
Ciò nonostante, dobbiamo evitare di gettare il bambino con l'acqua sporca: attendibile pare la testimonianza che attesta commerci sul Danubio ghiacciato tra la Dobrugia e le tribù transdanubiane.
E là dove sono passate le navi, ora si va a piedi e l'unghia
del cavallo batte le onde fatte ghiaccio dal freddo;
e per l'inusitato ponte, mentre scorrono le onde,
i buoi sarmatici vanno trainando i barbari carri.
Ov. Trist. III, 10, 31-34 (trad. di L. Galasso)
I barbari più presenti nelle elegie dell'esilio sono senz'altro i Geti, responsabili dell'attacco contro Egiso (12 d.C.) e Tresmi (15 d.C). Un elemento da notare è che questi sono presentati come non ancora sottomessi all'impero (cfr. «male pacati» Pont. II 7 2, «non bene pacati» Pont. III 4 92, «indomiti» II 2 4). Ciò va in contrasto con quanto affermato in quel capolavoro di propaganda politica che sono le Res gestae divi Augusti (cap. 30):
Sottomisi all'impero del popolo romano, dopo averle vinte per mezzo di Tiberio Nerone, allora mio figliastro, le popolazioni dei Pannoni, mai raggiunte prima del mio principato da alcun esercito del popolo romano, ed estesi i confini dell'Italia fino alle rive. Essendo un esercito di Daci passato al di qua di tale fiume, sotto i miei auspici, fu vinto e sbaragliato, e poi il mio esercito, guidato oltre il Danubio, costrinse le popolazioni dei Daci a sottomettersi agli ordini del popolo romano.
(Trad. di L. Canali)
La sensazione di insicurezza che il poeta vuole trasmettere è confermata da fonti esterne, secondo cui, da un lato, i Geti nelle loro migrazioni passavano continuamente da una riva all'altra del Danubio; dall'altro, tra il 2 e il 3 d.C., i Romani imposero a cinquantamila Geti un trasferimento al di là del fiume.
Concludendo, è da sottolineare come la situazione, per quanto migliore di come era descritta, non doveva comunque essere idilliaca se, all'interno del II libro dei Tristia, Ovidio si appella per ben due volte all'imperatore affinché fosse trasferito in un luogo più sicuro e meno lontano dall'Urbe:
E così ti prego e ti supplico di relegarmi in un luogo sicuro,
perché oltre alla patria non mi sia tolta anche la pace,
perché non viva nel timore di genti che l'Istro male trattiene,
e non possa cadere, tuo cittadino, nelle mani del nemico;
è sacra legge che nessuno, nato di sangue latino,
abbia a patire barbare catene finché regnano i Cesari.
Ov. Trist. II, 201-206 (trad. di S. Mazzati)


Ars amatoria, dissensi e circoli letterari: indizi di un giallo mai risolto

Se ormai è chiaro il motivo per cui Ovidio fu esiliato (ovvero un decreto dell'imperatore), non è altrettanto chiaro cosa indignò Augusto al punto di farlo reagire in maniera simile. Sull'argomento il nostro si rivela piuttosto reticente:
Penderit cum me duo crimina, carmen et error
altrius facti culpa silenda mihi
Ov. Trist. II, 207-208
Carmen et error non può essere considerata un'endiadi, giacché egli ha precedentemente specificato che si tratta di «duo crimina» distinti. Dobbiamo dedurre che il poeta fosse imputato di due capi d'accusa: da una parte l'aver composto poesie lesive della pubblica morale, dall'altra l'aver commesso un qualcosa che offese profondamente la sensibilità dell'imperatore.
Nell'elegia IV 10 dei Tristia, l'esule afferma:
A causa della mia rovina a tutti nota
non ha bisogno che sia attestata dalle mie parole.
Ov. Trist. IV 10, 99-100 (trad. S. Mazzanti)
Purtroppo, se la causa del suo esilio ai suoi tempi era nota a tutti, la reticenza del poeta ha causato ai moderni  non pochi problemi storico-interpretativi e ha generato un mare magnum d'ipotesi. Tenteremo allora, nei limiti del possibile, di dare una fisionomia al carmen e, soprattutto, all'error.

Il carmen

Gli studiosi sono quasi certi che sotto il nome carmen si celi l'Ars amatoria. Tale tesi sembra corroborata dal seguente distico:
Altera pars superest, qua turpi carmine factus
arguor obsceni doctor adulteri.
Ov. Trist. II 211-212
Ma vediamo come si giunti a una siffatta conclusione.
Verso i quarant'anni Ovidio, aveva intrapreso la composizione delle sue opere didascaliche. Così, nel lasso di tempo compreso tra il 1 a.C. e il 2 d.C., videro la luce la famigerata Ars amatoria; i Medicamina faciei (poemetto in distici sulla cosmetica di cui sono conservati solo cento versi), e i Remedia amoris (altro poemetto su come liberarsi dalle pene del cuore). L'Ars è un trattato in tre libri: nel primo e secondo, si danno suggerimenti agli uomini, rispettivamente, su come conquistare e come conservare l'amore di una donna; nel terzo, si spiega alle donne come sedurre un uomo. Esso aveva un carattere oggettivo e spersonalizzato e, benché descrivesse realisticamente il comportamento della buona società romana dei suoi tempi, i soli nomi che vi compaiono sono quelli di eroi ed eroine della mitologia. Ciò sembra dipeso dal fatto che Ovidio non volesse esporre nessuno con un'opera apertamente provocatoria, la quale andava contro le tendenze moralizzatrici del regime. Per volere di Augusto, infatti, a partire dal 18 a.C., erano state emanate due leges Iuliae (l'una, de maritandis ordinibus, combatteva il celibato e regolava il matrimonio in relazione alle classi sociali; l'altra, de adulteriis coercendis, puniva come reato qualsiasi relazione extraconiugale). Esse combattevano il cosiddetto matrimonio sine manu, diffuso a partire dagli ultimi anni della Repubblica: un'istituzione basata sull'affectio maritalis che la semplice separazione poteva sciogliere.
I Romani non accolsero di buon grado la novità e ciò suscitò l'indignazione dell'imperatore che arrivò a colpire con quelle stesse leggi un membro della sua famiglia: stiamo parlando di Giulia. La pubblicazione dell'Ars è del 2 d.C., proprio l'anno in cui fu presa questa drastica risoluzione. Forse conscio del vento che soffiava, negli anni successivi Ovidio si dedicò a poemi epico-civili, componendo Le metamorfosi e I fasti. Questo ultimo poema, che avrebbe dovuto articolarsi in dodici libri, rimase però interrotto a metà allorché, nell'8 d.C., un nuovo scandalo investì la casa reale: Giulia minor, figlia di Giulia e nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Trémiti a causa di una relazione adulterina con Decio Giunio Silano, il quale ritenne opportuno andarsene in esilio volontario. Fatto sta nello stesso anno anche Ovidio fu relegato a Tomi. Bertini ritiene che Augusto «volle far pagare a Ovidio il coraggio di aver osato contravvenire platealmente alla sua volontà e ai suoi disegni, pubblicando un'opera nella quale venivano esaltati gli amori adulterini».

L'error

Il fatto che l'imperatore abbia aspettato circa dieci anni dalla pubblicazione dell'opera incriminata prima di esiliare il poeta, però, ci crea delle perplessità. Sotto potrebbe celarsi dell'altro, e noi cercheremo di far luce attraverso la ricostruzione di Francesca Rohr Vio. Il dissenso nei confronti di Augusto e la minaccia di possibili congiure, sono attestati da svariate fonti antiche (Sen. Clem. I 9, 2-12; Sen. Breu. 4, 5; Plin. Nat. 45, 149-150; Suet. Aug. 19, 1; Tac. Ann. I 10, 3). Sebbene tutte le tendenze anti-augustee furono, in un modo o nell'altro, “censurate” (del resto nessuna forma di dissenso al regime fu mai vincente), il discorso che il principe rivolse alla moglie Livia, riportato da Dione Cassio (LV 14, 2-3), sembra aprire uno squarcio sulla verità celata dietro alla vulgata, la quale ci dipinge un consensus uniuersorum al principato:
[Augusto] rispose: «E chi, moglie, dormirebbe un solo istante senza preoccupazioni con dei nemici così numerosi e così costantemente insidiato ora da alcuni ora da altri? Non vedi in quanti sono ad attaccare me e il nostro potere?»
(Trad. di A. Stroppa)
Non possiamo capire fino in fondo la serie di eventi che trascinarono Ovidio in disgrazia senza prima descrivere per sommi capi il contesto storico in cui si realizzò la sua relegatio. L'età augustea, come tutte l'età di transizione, è un momento problematico, contrassegnato da tumulti e oscuri giochi di palazzo che vedono protagonisti i due rami della domus: da una parte, quello Giulio e, dall'altra, quello Claudio. Per questo contesto il lavoro dello storico è reso ancor più complesso dal fatto che era presente una sorta di “controllo” e censura dei testi.
Per quanto concerne il caso di Giulia, fonti quali Velleio (II 100, 3-5), Svetonio (Aug. 65, 4-7) e Dione (LV 10, 12-16), sembrano sottolineare come la dura azione del principe fosse dettata dall'ira del momento; Rohr Vio però fa notare che talune incongruenze nella uulgata lasciano intravedere come Augusto fosse da tempo al corrente delle frequentazioni della figlia. Inoltre la pena inflittole era molto più severa di quanto previsto dalla lex Iuliae (ossia relegatio in insulam e confisca di metà dei beni). Il principe arrivò persino a contrariare il popolo, tant'è che la plebs avanzò pesanti richieste in favore di Giulia (Svet. Aug. 65, 7 e Dio LV 13, 1): dietro tanta durezza da parte di un padre, si nascondono forse ragioni politiche legate alla successione. Ma per trattare di ciò occorre fare una breve digressione sulla complessa situazione familiare e genealogica dell'imperatore.
Augusto era inizialmente convolato a nozze con Scribonia, dalla quale ebbe la sua unica figlia (Giulia maior). Successivamente lasciò Scribonia per Livia, dalla quale non avrà alcun figlio ma che aveva due figli di primo letto: Tiberio (futuro successore di Augusto) e Druso. La scelta dell'erede pertanto orientata sul nipote Marcello, figlio della sorella Ottavia; sfortunatamente però questi morì appena ventitreenne nel 23 a.C. Pertanto Augusto diede in sposa la figlia al suo fido collaboratore Agrippa con l'intenzione di nominare come eredi i discendenti che ne nascessero: la donna ebbe due figli, Gaio e Lucio, che furono prontamente adottati da Augusto e verso i quali la plebs manifesterà un grande consenso. Purtroppo essi morirono in tenera età: l'uno il 2, l'altro il 4 d.C. Poiché anche Druso era morto, al principe non restava che adottare Tiberio, nonostante quello si fosse ritirato in un esilio volontario a Rodi forse perché in disaccordo col principe. Così nel 4 d.C. Tiberio, non solo venne adottato da Augusto, ma fu anche parzialmente associato al trono. Quando nel 14 d.C. il vecchio principe esalò il suo ultimo respiro, Tiberio gli succedette. Ma che c'entra Giulia con tutto questo?

Albero genealogico della dinastia Giulio-Claudia.
Di Muriel Gottrop, da Wikimedia Commons.

Le due Giulie e i sospetti di congiure

È verisimile che la colpa di Giulia, non fosse tanto morale, quanto di natura politica. Tacito (Ann. III 24, 4), oltre a sottolineare le prese di posizione eccessive rispetto ai limiti stabiliti dalla clementia imperiale e dalla leggi sull'adulterio, riferisce «come Ottaviano avesse equiparato nella repressione il crimen di Giulia e dei suoi correi al sacrilegio e alla lesa maestà associa […] ad essi il reato per cui venivano giudicati gli imputati di cospirazione»:
In verità, Augusto, nel qualificare un peccato così comune tra gli uomini e le donne con le gravi denominazioni di lesa maestà, si dipartiva dalla clemenza degli antichi, e varcava i limiti delle sue stesse leggi.
Tac. Ann. III 24, 2 (trad. di C. Questa)
C'è poi Plinio (Nat. VII 45, 149), l'unico autore antico ad attribuire a Giulia, accanto all'adulterio, un crimine differente: il progetto di assassinare il padre (consilia parricidae).
Un'altra utile testimonianza è fornita da Seneca, il quale scrive: 
Proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio, di tanti altri. Non era ancora sfuggito alle loro insidie, e la figlia e tanti nobili giovani uniti dal vincolo dell'adulterio come da un giuramento ne impaurivano la già stanca età, e più di loro e per la seconda volta una donna temibile con un Antonio.
Sen. Breu. 4, 5-6 (trad. di A. Traina)
Il filosofo latino, al pari di Velleio (II 100, 3-5), Tacito (Ann. IV 44, 5) e Dione (LV 10, 12-16), mette in relazione la relegatio di Giulia con le disgrazie di Iullio Antonio. Ma chi era costui? E perché rappresentava un pericolo per Augusto?
Tacito (Ann. I 10, 3; III 18, 1) e Dione (LV 10, 15) attribuiscono a Iullo l'allestimento di un progetto sovversivo: il primo lo associa a Murena ed Egnazio (entrambi, secondo la tradizione letteraria, espressione di tendenze anti-augustee) e il secondo afferma che operò περὶ τῇ μοναρχίᾳ. Non stupisce che, una volta accusato di essere l'amante di Giulia maggiore e di aver ordito contro Augusto, fu condannato a morte. Del resto vari autori danno al reato di Iullo una coloritura politica. L'agire περὶ τῇ μοναρχίᾳ di Iullo sembra affine al progetto politico del padre, Marco Antonio, che, secondo i proseliti filoaugustei, tramava per trasformare la res publica in una monarchia di tipo ellenico. Sappiamo da Svetonio che aveva frequentato la scuola di Crassicio. È quindi possibile che Iullo abbia frequentato i medesimi circoli letterari legati al padre e depositari della sua propaganda.
Un altro indizio pare attestare la vicinanza di Iullo alla linea paterna: lo Ps. Acrone, commentando due luoghi dell'ode oraziana IV 2, testimonia che Iullo aveva scritto un poema esametrico in dodici libri dedicato alle imprese di Diomede. Orazio lo invita a modellare in futuro la sua poesia sull'esempio di Pindaro e a celebrare i successi militari di Augusto: in altre parole a dissociarsi dalla sua produzione. Viene naturale un confronto tra la Diomedea e l'Eneide: mentre nel primo si celebra un eroe greco (non si dimentichi Marco Antonio aveva rivendicato ancestrali origini greche), nel secondo si celebra il troiano Enea (che aveva Augusto fatto plasmare come il suo progenitore): Enea e Diomede erano stati evocati l'uno a sostegno, l'altro a detrimento, delle posizioni “filotroiana” e dunque filoaugustee. In età augustea «la polemica politica tra le voci del consenso e quelle della 'fronda' si giocava anche sul tema del Palladio ed in particolare sulle modalità con cui era giunto a Roma».
La figlia di Augusto forse condivideva col marito la frequentazione degli stessi circoli culturali. L'ipotesi supposta da Rohr Vio è quella di un legame tra il crimen di Giulia e la domus del principe. Plinio (Nat. VII 45, 147-150) è il solo autore antico ad attribuire a Giulia un reato alternativo all'adulterio in un passo dove si descrive le disgrazie di Augusto:
Le mire sospette di Marcello, il vergognoso allontanamento di Agrippa, tante insidie portate alla sua vita; le accuse lanciate in seguito alla morte dei figli e i lutti che non lo rattristavano solo per la perdita subita, l'adulterio della figlia e la pubblica rivelazione dei suoi progetti di parricidio; l'offensivo isolarsi del figliastro Nerone; l'altro adulterio compiuto dalla nipote.
Pl. Nat. VII 45, 149 (trad. di G. B. Conte)
Secondo Rohr Vio, l'autore contestualizzerebbe
il ricordo di Giulia in un momento del suo racconto finalizzato in termini evidenti a ripercorrere i diversi momenti dello scontro maturato all'interno della domus principis [tra il ramo Giulio e quello Claudio] in ambito di politica successoria.
Non è dunque un caso che nella suddetta pagina pliniana vi sia l'elenco di tutti i possibili successori (Marcello, Agrippa, i due Cesari e Tiberio) e che il nome di Giulia si frapponga a questi tra l'affermazione della morte dei principes iuuentutis e quella dell'esilio volontario di Tiberio. Le insidie connesse alla politica dinastica erano sempre in agguato. Quanto a Cepione e Murena, è probabile che la congiura del 22 a.C. fosse una reazione al delinearsi del proposito augusteo di dar vita a una sorta di monarchia dinastica.
Il momento in cui Giulia e i suoi “amanti” furono perseguitati era lo stesso dell'ascesa di Tiberio: quest'ultimo, in seguito alla morte di Agrippa (12 a.C.) e di suo fratello Druso (9 a.C.), aveva consolidato la sua posizione nell'àmbito della successione; l'11 a.C. a Tiberio era stata data in sposa Giulia, così com'era precedentemente accaduto con Marcello e Agrippa; il 7 a.C. ottenne il secondo consolato; infine l'anno seguente egli, che fino ad allora era stato sostanzialmente un uomo d'armi, conseguì la tribunicia potestas e l'imperium proconsolare maius sulle provincie orientali per cinque anni (Dio LV 9, 5). A questo punto Tiberio deteneva il secondo posto nello Stato e avrebbe potuto esercitare il suo ascendente sui principes iuuentutis.
Il rapporto tra Tiberio e Giulia sembra essere stato armonioso fino a che, nel 9 a.C., morì il loro unico figlio (Svet. Tib. 7, 5). Interessante la testimonianza tacitiana (Ann. I 53, 5) di alcune lettere «quas Iulia patri Augusto cum insectione Tiberii scripsit, a Gracco compositae credebantur». Si desume che Sempronio Gracco (cfr. Tac. Ann. I 53, 4-8), avversario di Tiberio,  fosse vicino a Giulia fin dai tempi del suo matrimonio con Agrippa; è presumibile che l'accusa contro di lui fosse di natura politica. L'assunzione di atteggiamenti pericolosi da parte di Giulia ai danni di Tiberio è testimoniata dal fatto che il marito, inizialmente, intercedette in favore della donna presso Augusto, il quale ne dispose il divorzio (Svet. Tib. 50, 2); tuttavia, una volta tornato a Roma e reintegrato ai vertici dello Stato, assunse contro la donna misure repressive analoghe a quelle adottate dal principe nel 2 a.C.
Ma cosa era cambiato in Giulia, durante un matrimonio iniziato all'insegna dell'equilibrio? Tacito (Ann. I 53, 3) riconduce il venir meno di tutte le sue speranze alla morte di Agrippa, ultimo possibile erede appartenente al ramo Giulio in grado di arrestare l'ascesa di Tiberio che nutriva istanze conservatrici, ergendosi a tutore degli organi statali della Respublica e garante del mos maiorum (verisimilmente nel 10 a.C., Druso aveva scritto al fratello invitandolo a persuadere Augusto a restaurare la Respublica; cfr. Svet. Tib. 50, 1). Egli era circondato da un seguito ampio e variegato, costituito da esponenti della nobilitas repubblicana come da uomini di bassa estrazione sociale la cui ascesa era dovuta o al servizio nelle milizie o al favore di Livia. Pare che Giulia stessa potesse contare su un entourage prestigioso, composto da eredi della tradizione repubblicana, accomunati dal gusto per la vita raffinata e la cultura. Tale entourage ha i tratti di una fazione familiare, connessa da vincoli parentali col triumvirato di Antonio e il suo seguito. Fuori dalla sua cerchia v'erano altri sostenitori: Svetonio (Aug. 65, 7) e Dione (LV 13, 1) descrivono la forza con cui il popolo chiese la reintegrazione di Giulia. Ciò ci dimostra come il popolo fosse favorevole al ramo Giulio della domus e avverso a quello Claudio, specie a Tiberio. Giulia, a differenza del marito, patrocinava un modello basato sullo stretto rapporto tra principe e popolo per mezzo del programma politico delineato da Antonio.
La prossimità della donna all'ideologia antoniana si evince da un'altra pagina pliniana (Nat. XXI 5, 8-9):
L. Fuluius argentarius bello punico secundo cum corona rosacea interdiu e pergula sua in forum prospexisse dictus ex auctoritate senatus in carcerem abductus non ante finem belli emissus est. P. Munatius cum demptam marsuae coronam e floribus capiti suo inposuisset, atque ob id duci eum in uincula triumuiri iussissent, appellauit tribunos plebei, nec intercessere illi, aliter quam athenis, ubi comissabundi iuuenes ante meridiem conuentus sapientium quoque doctrinae frequentabant. apud nos exemplum licentiae huius non est aliud quam filia Diui Augusti, cuius luxuria noctibus coronatum marsuam litterae illius dei gemunt.
La statua di Marsia e l'albero su cui si reggeva, simbolo della città libera, erano ampiamente sfruttati dalla propaganda sfruttata ampiamente dai populares: non dimentichiamoci che Marsia era il maestro di Liber Pater, utilizzato per la propaganda di Antonio (Vell. II 82, 4). Marsia era il rivale di Apollo: come tale non può essere considerato come opposizione ad Augusto-Apollo?
Il riferimento a Marsia da parte di Giulia potrebbe rappresentare allora una rivendicazione nel senso di una caldeggiata alleanza tra principe e plebe per la libertà sociale e politica, attraverso l'appello al modello antoniano e la contestazione del conservatorismo augusteo.
Il 6 a. C. segna un discrimen significativo: i poteri conferiti in quell'anno da Augusto a Tiberio (la tribunicia potestas e l'imperium proconsolare) non possono che essere letti come il tentativo da parte dell'imperatore di porre un freno all'esuberanza dei giovani nipoti, che aveva adottato e che apparivano come i favoriti nella successione. Malgrado questo onore, Tiberio decise di ritirarsi dalla vita politica e abbandonare la città di Roma, per andarsene in un volontario esilio a Rodi. Benché la ragione di questo allontanamento rimangono in parte oscure, sembra comunque connessa a motivazioni dinastiche.
La politica di Augusto s'indirizza al consolidamento di un accordo con l'aristocrazia senatoria. Nel lasso di tempo intercorso tra il 10 e il 2 a.C., gli antoniani che orbitavano intorno a Giulia aveva riesumato i più importanti progetti di Cesare (guerra politica, espansionismo, attenzione alle istanze sociali dei ceti inferiori, apertura ai modelli ellenici). E così la repressione si spinse al punto che Augusto condusse in tribunale la propria figlia, affinché fosse punita (Svet. Aug. 65, 4 e Dio LV 10, 12-16). Punendo Giulia e i suoi per la violazione della lex Iulia, maschera gli intenti politici di tale espulsione, salvando l'immagine di consensus universorum per il possesso del quale si era sempre adoperato. E in effetti la tradizione, con la sola eccezione di Plinio e Dione, attribuisce l'esilio di Iullo e Giulia all'adulterio. Altra prova degli atteggiamenti antiaugustei e filoantoniani di Giulia e i suoi amanti ci è fornita dal modo in cui ci sono tràdite le vicende: secondo le tecniche propagandistiche usuali, si applicò a loro forvianti deformazioni e si focalizzò l'attenzione su Giulia e non sul figlio del triumviro Marco Antonio, ponendo l'accento sull'àmbito dei rapporti familiari (vd. Vell. II 100, 3: «filia eius... vindicans»).
Dopo il 2 d.C., si verificò un evolversi del quadro politico. Nonostante la situazione fosse mutata, restavano da sciogliere i nodi legati alla successione: le speranze di un futuro Giulio per l'impero non erano infatti perdute, giacché Agrippa postumo, figlio di Giulia Maggiore e fratello di Giulia minore, era ancora in vita. Il 4 d.C. morì Gaio Cesare, sicché Augusto adottò Agrippa e, in concomitanza con questo fatto, adottò pure Tiberio, affermando di aver fatto ciò per il bene dello Stato.
Il 7 d.C., dopo esser stato privato dell'adozione, fu relegato a Sorrento Agrippa Postumo, ultimo potenziale erede del ramo Giulio.90 La revoca dell'adozione non può che essere letta come l'esito estremo dello scontro tra i due rami della dinastia Giulio-Claudia.91 Di contro la tradizione è concorde sull'immoralità del giovane come causa della revoca dell'adozione (cfr. Vell. II 112, 7; Svet. Aug. 65, 3 e 9; Tac. Ann. I 13, 4; Dio LV 32, 2). Agrippa fu ucciso nel 14 d.C. da un centurione. Secondo la testimonianza di Tacito (Ann. I 6, 1-3), la responsabilità del suo assassinio sarebbe da attribuire a Livia e a Tiberio:
Il primo atto del nuovo principato fu l'assassinio di Postumo Agrippa, che, colto di sorpresa ed inerme, fu tuttavia a fatica ucciso da un centurione pur d'animo coraggioso. Nulla di ciò Tiberio disse in Senato: fingeva che vi fossero disposizioni del padre, che avrebbe ordinato al tribuno addetto alla guardia di Agrippa di non indugiare a ucciderlo, appena egli stesso fosse morto. […] Era più vicino alla verità il fatto che Tiberio e Livia, l'uno per paura, l'altra per odio di matrigna, avessero affrettato l'assassinio del giovane sospetto ed odioso. Al centurione che gli annunziava che ciò che gli era stato ordinato era stato compiuto, [Tiberio] rispose che glielo aveva comandato lui e che al Senato si doveva render ragione di quell'atto.
(Trad. di C. Questa)
C'è da notare come la tradizione sia concorde nello stabilire una correlazione tra l'eliminazione di Agrippa e l'ascesa di Tiberio.
Una voce riportata da Tacito (Ann. I 5, 2) ci riferisce che, pochi mesi prima di morire, Augusto, accompagnato dal solo Fabio Massimo, si recò a Planasia per incontrare Agrippa Postumo. Tra i due ci fu una riconciliazione. Fabio Massimo però non seppe mantenere il segreto e si confidò con la moglie, Marcia, la quale ebbe la sciagurata idea di riferire tutto a Livia. A questo punto Fabio Massimo si suicidò (cfr. Tac. Ann. I 5, 2). Plutarco (De garrul. 11, 508 A) riferisce che Livia quando ne fu a conoscenza temette una possibile rappacificazione tra il principe e il nipote ai danni di suo figlio Tiberio.
È in mezzo a un clima così incandescente che si apre una nuova persecuzione ufficiale per adulterio, volta a nascondere un dissenso interno alla domus, talvolta contro gli amanti di Giulia Minore. Essa era nipote di Augusto, sorella di Agrippa e moglie di Lucio Emilio Paolo, nonché vittima nell'8 d.C. (guarda caso a distanza di un anno dal fratello e nello stesso anno di Ovidio) della relegatio. Non mancano le analogie tra il suo caso e quello della madre, Giulia Maggiore: in primis le fonti, a prima vista concordi, non mancano di tracce che facciano pensare al suo come a un reato per laesa maiestas; in secondo luogo i provvedimenti contro di lei sembrano sproporzionati all'accusa ufficiale (sull'eccezionalità della repressione, vd. Tac. Ann. IV 24, 4); infine ci troviamo di nuovo innanzi a una donna della famiglia Giulia, affiancata da un esponente dell'aristocrazia politicamente attivo, Lucio Emilio Paolo, messo a morte per un azione riconducibile al crimen maiestatis.

Agrippa Postumo e Giulia minor: possibili frequentazioni di Ovidio?

Due circostanze sembrano confermare il fatto che Ovidio fosse in qualche modo legato ad Agrippa Postumo: in primis, il fatto che il poeta, Agrippa e Giulia minore furono esiliati all'incirca nello stesso periodo di tempo; in secondo luogo il fatto che il poeta scrisse alcuni versi a Fabio Massimo. A quest'ultimo sono dedicati i seguenti versi:
Tu, Massimo, gloria della stirpe Fabia, eri deciso a rivolgerti
con parole di supplica al nume di Augusto.
Muori prima di aver pregato e credo, Massimo, di essere io
(e non varrò tanto) la causa della morte tua.
Ormai ho paura ad affidare a qualcuno la mia salvezza:
con la tua morte è crollato ogni mia salvezza:
con la tua morte è crollato ogni mio soccorso.
Augusto aveva cominciato a perdonare la colpa nata dall'errore:
abbandonò nello stesso la terra e le mie speranze.
Ovid. Pont. IV 6, 16 (trad. di L. Galasso)
Quanto detto poc'anzi va messo in relazione con la testimonianza tacitiana (Ann. I, 5) relativa all'incontro tra Augusto, al cui seguito si trovava Fabio Massimo, e Agrippa Postumo a Planasia. Inoltre la moglie di Ovidio era imparentata di Marcia, la moglie di Fabio Massimo. Lei era senz'altro intima con Marcia e Ovidio era amico di vecchia data di Fabio (Pont. I 2, 129-150). Fabio sarebbe potuto essere uno dei primi a intercedere presso Augusto in favore del poeta esiliato, se non fosse che aspetto più di cinque anni senza fare il minimo sforzo e, quando fu sul punto di parlarne con Augusto, morì (14 d.C.).
Non possediamo invece nessuna prova in grado di suffragare la congettura secondo cui Ovidio sarebbe stato uno dei tanti amanti di Giulia Minore. Comunque tali ipotesi, suggerita dal fatto che i due furono esiliati nello stesso anno, congiuntamente a quanto detto, sembra suggerire che il poeta fosse vicino al circolo della donna.
è infine il caso di citare due versi significativi sull'error del poeta:
Perché vidi? Perché resi colpevoli i miei occhi?
Perché della mia imprudenza fu conosciuta una colpa?
Ovid. Trist. II, 103-103 (trad. di S. Mazzanti)
Sembrerebbe che il poeta, in un clima così incandescente, fosse giunto a conoscenza di qualcosa che non doveva conoscere. Ad aggravare il tutto potrebbe esserci il suo timor di rivelare subito ciò che aveva visto? In questo senso sembra andare il seguente verso:
O il timore o l'errore, ma prima l'errore mi fu funesto.
Ovid. Trist. IV 4, 39 (trad. di S. Mazzanti)

I circoli letterari come veicolo di propaganda

Con Augusto l'impero romano prende coscienza della sua missione del mondo: garantire giustizia e pace ai popoli assoggettati per mezzo del suo dominio, non più visto come supremazia del più forte, ma come supremazia del migliore. Alla completa formulazione dei compiti di Roma parteciparono poeti e storici. A tale proposito emblematici i versi di Virgilio:

Stabilire norme
alla pace, risparmiare i vinti e debellare i superbi
Verg. Aen. VI 851-853 (trad. di L. Canali)
A questo fine, oltre che al consolidamento del suo potere carismatico, Augusto seppe piegare tutte le forme d'arte dell'epoca. Non è un caso che queste immagini e questi ideali li ritroviamo nelle opere dei poeti attorno al circolo di Mecenate (che, tra l'altro, era insieme ad Agrippa, un coautore della riorganizzazione urbanistico-architettonica della città).
Ovidio non faceva parte del circolo di Mecenate, bensì di quello di Messalla. In un'elegia al figlio di questo, Messalino, il poeta ricorda il ruolo avuto dal padre nell'incentivazione agli studi:
E tuo padre non ha rinnegato la sua amicizia con me; mi ha incoraggiato
ed è stato l'origine del mio impegno poetico.
A lui ho tributato le mie lacrime, l'omaggio supremo nelle esequie,
e in mezzo al foro è stato cantato il carme che io ho composto.
Ovid. Pont. I, 7, 27-30 (trad. di L. Galasso)
Gli studiosi che concepiscono il regno di Augusto a guisa di un regime totalitario in cui la letteratura era concepita principalmente come propaganda, ritengono che la ragione della relegatio di Ovidio sia da rintracciare nella sua indipendenza letteraria: egli avrebbe rifiutato di piegare la sua musa al fine di abbellire gli atti e le glorie dell'imperatore e del suo governo, pertanto sarebbe incorso nella sua ira. I seguaci di questa tesi adducono come prova la recusatio contenuta nel II libro dei Tristia. A tale ipotesi Thibault muove una giusta obiezione: la catastrofe non fu dovuta all'incapacità di comporre lodi a Cesare, ma alla sua eccessiva bravura nello scrivere lodi all'amore.

Conclusione

Se il carmen può essere identificato con buona approssimazione nella Ars amatoria, ben più problematica risulta l'identificazione dell'error di cui possiamo solo affermare, senza certezza assoluta, che si tratta di un qualcosa riconducibile alla lotta per la successione dinastica e ai ruoli che i circoli letterari sembrano aver giocato nello scacchiere politico e propagandistico. Un'ipotesi che ci sembra poco battuta è quella che sia stato trascinato in mezzo a qualche scandalo legato alle sue frequentazioni di certi circoli letterari senza però una partecipazione politicamente attiva.
Per quasi duemila anni eruditi, studiosi e filologi si sono scervellati nel tentativo di stabilire l'esatto crimen, spesso con teorie e congetture ingegnose ma non suffragate da prove. Per usare le parole che La Penna scrive su quanto concerne l'impossibilità di dare un volto al misterioso “Ibis”, l'indagine sull'error di Ovidio è «spesso stancante per il suo ostinarsi a non considerare perditum quod periit, e a tessere che hanno il solo scopo di essere disfatte». Certo è che non dobbiamo cadere in un cupo scetticismo: se è impossibile stabilire la reale natura del suo crimen, è altresì vero che possiamo escludere varie ipotesi, restringendo man mano il range cui ascrivere la culpa del poeta, specie se si evitano eccessive argumenta ex silentio.
Infine ci sentiamo di ribadire la lontananza di Ovidio dal mondo dei giochi di palazzo. In ciò ci discostiamo da Rohr Vio, che invece asserisce:
Ovidio sembra più vicino ai modelli ideologici sposati dalle due Giulie che a quelli difesi dal conservatore Tiberio. [...] L'error con ogni probabilità va ravvisato proprio nel dissenso politico che il poeta, sostenitore della discendenza Giulia in competizione con quella Claudia e membro di circoli larvatamente e poi decisamente sovversivi, esplicitò nelle forme più decise dell'Ars amatoria, il carmen a cui sembra far riferimento.
Ammesso che Ovidio vagheggiasse certi progetti politici cesariani ciò non significa che queste passassero dalle idee ai fatti. Del resto la memoria di sé che Ovidio ha voluto lasciarsi (e che aderisce aderisce maggiormente alla realtà), non è certo quella di un pericoloso sovversivo politico, ma quella di un «tenerorum lusor amorum» (Trist. III 3, 73).

Bibliografia

Edizioni, traduzioni e commenti di opere ovidiane

  • Bertini F. (1983), Ovidio. Amori, trad. it. di R. Mazzanti, Garzanti, Milano
  • Bonvicini M. (20053), Ovidio. Tristia, Garzanti, Milano (1a ed. 1991)
  • Fasce S., Ferrara G. (1903) Ovidio. Tristia, Loescher, Torino
  • Galasso L. (2008), Ovidio. Epistulae ex Ponto, Mondadori, Milano
  • Giordano D. (2005) “Introduzione” in Bonvicini (20053)

Edizioni, traduzioni e commenti di altri autori antichi

  • Canali L. (2010), Ottaviano Augusto. Res gestae, Mondadori, Milano
  • Cicarelli I. (2003), Commento al II libro dei Tristia di Ovidio, Edipuglia, Bari
  • Conte G. B. (1983), Gaio Plinio Secondo. Storia naturale, vol. II, “Antropologia e zoologia: Libri 7-11”, traduzioni e note di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone, Giuliano Ranucci, Einaudi, Torino
  • Cresci Marrone G. (1998), Cassio Dione. Storia romana, vol. II, Libri: 52-56, Introduzione di Giovannella Cresci Marrone; traduzione di Alessandro Stroppa; note di Francesca Rohr Vio, Rizzoli, Milano
  • Lipparini G. (1971), Caio Sallustio Crispo. La congiura di Catilina; la guerra giugurtina; Orazioni e lettere, Zanichelli, Bologna
  • Questa C. (200715), Publio Cornelio Seneca. Annali, con un saggio introduttivo di Cesare Questa; traduzione di Bianca Ceva, 2 voll., Bur, Milano (1a ed. 1981)
  • Santi Amantini et al. (1995), Plutarco. Vite di Demetrio e di Antonio, a cura di L. Santi Amantini, C. Carena e M. Manfredini, Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), Milano
  • Traina A. (200722), Seneca. La brevità della vita, BUR, Milano (1a ed. 1993)

Saggi e articoli

  • Becatti G. (19993), L'arte dell'età classica, Sansoni, Firenze (1a ed. 1965)
  • D'Angelo G. (2004), Storia della letteratura mediolatina, Accademia Vivarium novum, Roma
  • Griffin M. T. (1976), Seneca a philosopher in politics, Calderon Press, Oxford 
  • Housman A. E. (1920), Who was Ibis? Nobody in: J. Ph. 35, pp. 297-318
  • Mastrocinque A. (2000), Arnoldo Momigliano. Manuale di storia romana, UTET Università, Torino
  • Nuti R. (20012), Velleio Patercolo. Storia Romana, BUR, Milano (1a ed. 1997)
  • Rohr Vio F. (2000), Le voci del dissenso. Ottaviano Augusto e i suoi oppositori, Il poligrafo, Padova
  • Thibault J. C. (1964), The Mystery of Ovid's Exile, University of California Press, Berkeley and Los Angeles
  • Veyne P. (2007), L'impero greco-romano. Le radici del mondo globale, Rizzoli, Milano: ed. orig. L'empire gréco-romain (2005), Seuil, Paris

Dizionari, enciclopedie e opere di consultazione

  • Hammond N. G.L. - Scullard H.H (1981), Dizionario d'antichità classiche di Oxford. Edizione italiana a cura di Mario Carpitella, San Paolo edizioni, Roma (ed. orig. The Oxford Classical Dictionary, edited by N.G.L. Hammond and H.H Scullard, University Press, Oxford University , Oxford 19702)
  • Lewis C. T., Short C. (1969), A Latin Dictionary, Calderon Press, Oxford (1a ed. 1969)
  • Liddell H. G., Scott R., Jones H. S. (19779), Greek-English Lexicon, Calderon Press, Oxford (1a ed. 1843)
  • Wissowa G. (1985), Pauly Realencyclopädie der classichen Altertumwissenschaft, vol. VI 2, Alfred Druckmüller Verlag, Stuttgard

Licenza Creative Commons
“Carmen et error”: disamina sulla relegatio dell'esule Ovidio di Marco Luchi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso marchingegno88@gmail.com.

Nessun commento:

Posta un commento