domenica 16 giugno 2013

[recensione] Henri-Irénée Marrou - Decadenza romana o tarda antichità? (III-VI)



Autore: Henri-Irénée Marrou
Titolo: Decadenza romana o tarda antichità? (III-VI secolo)
Editore: Jaca Book
Anno: 2007
Prezzo: 15,00 €

State per leggere la recensione eteroclita su un testo che ho studiato per un esame: la sua natura bislacca (a metà tra una recensione e un saggio breve delle superiori) è dovuta al fatto che ho innestato alcuni appunti e qualche considerazione personale. Dato che il testo è spesso in programma nel corso di Letteratura latina tardo antica l'Università di Pisa, spero possa esservi utile.

Biografia dell'autore

 



Henri-Irénée Marrou nasce nel 1904 a Marsiglia da genitori di origine provenzale. Dal 1925 studia all'École Normale di Parigi. Nel 1929 ottiene l'abilitazione per insegnare storia e geografia ai licei, collabora con la rivista Politique e prende parte al movimento studentesco Jeunesse Étudiante Chrétienne (JEC).
Dal 1930 è in Italia per studio: dapprima all'École française de Rome (1930-32), poi all'Istituto francese di Napoli (1932-37) dove consegue il dottorato con una tesi su Agostino.
Nel 1939, allo scoppio della guerra, si arruola come ufficiale del servizio di sanità all'ospedale di Marsiglia. Congedatosi, nel 1940 fu nominato docente all'università di Montpellier; là aderisce alla resistenza contro l'occupazione nazista, contribuendo al salvataggio dei membri della comunità ebraica di Lione.
Nel 1945 è professore di storia del Cristianesimo all'Università della Sorbona (numerosi suoi volumi risalgono al periodo di insegnamento a Parigi) e nel 1967 diviene membro dell'Académie des inscriptions et belles-letres.
Nel maggio del 68, con l'inizio delle contestazioni studentesche, si apre una nuova fase della sua vita: Marrou, da una parte, capisce le esigenze degli studenti; dall'altra, non condivide gli esiti rivoluzionari della protesta. Alle agitazioni seguì lo smembramento della Sorbona in diversi atenei: lo studioso, per non abbandonare i suoi amici latinisti ed ellenisti, rimane all'Università di Parigi IV.
Nel 1973 pubblica Les quatre flueves contro le letture rivoluzionarie del cristianesimo in voga in quegli anni. Lo stesso anno fu sollevato dai corsi universitari e destinato al Centro di ricerche sul cristianesimo  antico dove rimase fino al 1975.
Morì nel 1977.


Il testo

Il testo di Marrou preso in esame fu pubblicato postumo nel 1977 dalla figlia dello studioso. Il saggio si concentra sul periodo che va dal III al VI sec. d.C. e dà addito a numerose riflessioni su come siamo giunti dalla civiltà classica al Medioevo e dunque all'Europa moderna (p. 7).
Nel rispondere a ciò, lo storico sottolinea come il Mediterraneo, teatro di un'epoca gravida di conseguenze qual è la tarda antichità, abbia sempre svolto un ruolo “acculturatore”: sullo sfondo del mare nostrum, l'incontro/scontro tra popolazioni e culture diverse ha progressivamente portato a una sintesi, vale a dire il Medioevo (pp. 7-8).
Nel far ciò non si sofferma sugli Arabi, nonostante il loro apporto alla storia del Mediterraneo. La ragione è ovvia: l'Islam nasce dopo la tarda antichità (si pensi al fatto che il Corano fu edito la prima volta nel 650 d.C.). Eppure, oggi che l'attenzione si è rivolta all'onda lunga del tardo ellenismo, che ha percorso la penisola araba fino allo Yemen, si è colto come le dinamiche tracciate da Marrou possa essere applicata al Mediterraneo orientale (p. 8).

Riporto a seguire il contenuto dell'opera (suddiviso, per ragioni di praticità nell'esposizione in tre sezioni) suggellato da un paragrafo contenente alcune considerazioni finali.


Caratteri generale della tarda antichità



Testa monumentale di
Costantino, 330 d.C. ca.,
Musei Capitolini
(Palazzo dei Conservatori),
Roma.

È un dato acquisito che il passaggio dall'antichità all'Europa moderna non sia avvenuto per filiazione diretta. Nel mezzo vi sono stati due grandi momenti: il Medioevo e il Rinascimento (cui era stata spianata la strada dall'umanesimo, l'estremo fiore del Medioevo). Il passaggio tra l'antichità classica e Medioevo è stato a sua volta mediato da un altro periodo storico dalla forte personalità: la tarda antichità (III-VI sec. circa). 

Su questi due periodi storici, vale a dire Medioevo e Tarda antichità, sono sempre gravati dei pesanti pregiudizi. Fino al XV sec. v'era infatti un unanime giudizio negativo sulle manifestazioni artistiche prodotte tra i fasti della classicità e il rinascere delle arti e delle lettere. Ora, se per il Medioevo si è dovuto aspettare fino al Romanticismo per la sua doverosa rivalutazione, per la Tarda Antichità si è dovuto attendere addirittura fino al XX sec. con la cosiddetta “scuola viennese”. Col tempo l'interesse per questa età è cresciuto (pur restando spesso circoscritto all'àmbito specialistico), specie a partire dagli anni Settanta. Ed è al 1977 che risale l'uscita postuma di Décadence romaine ou antiquité tardive?.

Gli aspetti più piacevole dell'opera sono la chiarezza e la scorrevolezza, dovuta sia allo stile piano sia alla capacità di spaziare, traendo in modo coerente esempi dagli ambiti più disparati.

Interessante il capitolo sull'abbigliamento (pp. 19-22). Nella tarda antichità gli abiti si fanno sempre più aderenti, ciò rende possibile cimentarsi in lavori gravosi senza bisogno di spogliarsi. Così, da una parte, la nudità diventa un'eccezione e viene tabuizzata; dall'altra, si sviluppa un nuovo concetto di pudore. E pensare che nell'antichità classica si opponeva alla reticenza del barbaro a spogliarsi la nudità eroica dell'atleta!

Il mutamento più profondo e gravido però si realizzò sul piano religioso. Ci riferiamo al progressivo trionfo del Cristianesimo? Solo in parte. Vi fu soprattutto a un cambio di mentalità (i cui prodromi possiamo già rintracciarli in Cicerone) senza il quale non sarebbe stata possibile la recezione della nuova religione. Spia di una trasformazione della civiltà è l'arte: un campo cui Marrou fa spesso riferimento in modo perspicuo. Si pensi a come gli imperatori, rappresentati fino al 235 d.C. con fattezze realistiche, nel basso impero assumano sempre più fattezze standardizzate e dimensioni colossali. Non si rappresenta più il sovrano in quanto uomo, bensì il principio astratto della sovranità terrena come riflesso di quella divina. Tuttavia quello che - a mio giudizio - è uno degli aspetti più interessanti dell'opera è l'idea di un «cambiamento nella continuità» (pp. 23-31): parallelamente all'esprimersi di questa nuova spiritualità, l'impero si propone di proteggere la civiltà romana e la tradizione ellenistica. Non è forse che la passione per i ludi continuò anche nella tarda antichità, come ci dimostrano mosaici pervenutoci specialmente dall'Africa (pp. 32 - 37)?

Come dicevamo, è sul piano religioso che abbiamo avuto il mutamento più vistoso e gravido di conseguenze (pp. 38-46): il trionfo del Cristianesimo (IV sec.). Il Fedro platonico ci mostra come, per il paganesimo, tutto possa essere sacralizzato. Il cittadino greco (così come quello romano di età repubblicana) si riconosceva all'interno di un contesto sociale (si pensi al concetto di polis); il cui elemento di coesione era la condivisione di un culto: la religiose domestica, a livello microscopico; la religione di stato, a livello macroscopico. Durante l'ellenismo, specie dopo la battaglia di Cheronea (338 a.C.), si disgregarono il concetto e la struttura di “città”. Ora, l'ellenismo è, sì, un'epoca dal carattere profano (si pensi all'indebolirsi della fede, allo sviluppo del culto dei sovrani e dominato dalla ricerca “laica” della felicità); ma anche l'epoca in cui si sviluppa l'idea di Dio (ὁ Θεός) che sostituirà quella del divino (τὸν θεόν): e così, da un lato, l'enoteismo pagano opera un processo di assimilazione e gerarchizzazione delle divinità; dall'altro, si sviluppa una nuova concezione dell'aldilà. Tutto questo permise una convergenza di vedute tra paganesimo edotto e cristianesimo delle origini (pp. 38-46).

Ancora una volta è nell'arte che abbiamo una spia di questo mutamento (pp. 47-51): si pensi all'adattamento da parte dei Cristiani di temi iconografici con cui i pagani esprimevano idee e/o sentimenti simili e/o identici (la fenice, i loci amoeni, l'“orante”, il buon pastore ecc.): una delle più significative espressioni di questa osmosi è la tomba di Vibia.


Già nel III sec. il Cristianesimo era diffuso tra le classi più elevate e nel IV troviamo attivi numerosi padri della chiesa. Essi avevano accesso agli ambienti della classe dirigente, o perché provenivano da famiglie aristocratiche, o in virtù della cultura. Ma qual era la cultura che permetteva ciò? Ovviamente quella classica (pp. 52-56)! Ancora una volta ci troviamo di fronte a un fenomeno di cambiamento nella continuità.

Ma il cristianesimo non spazzò via il paganesimo in un sol colpo. Anzi, il paganesimo sopravvisse grazie alla sua natura rigorosamente strutturata: così lo ritroviamo nelle campagne sotto forma di superstizioni; così come nelle classi colte, per rispetto delle tradizioni avite o attribuendo ad esso un nuovo significato (magari alla luce dello stoicismo). Di contro al “formalismo” tipico della religiosità pagana, la tarda antichità oppone una mentalità dogmatica: l'elemento di coesione è ora il riconoscersi in una teologia. Si diffonde poi l'idea, tipicamente orientale, che sia Dio a farsi conoscere: concezione che ritroviamo tanto nel culto di Mitra che nel giudaismo e nel cristianesimo; nonché nel paganesimo prima della sua scomparsa. Grande importanza viene pertanto data alla scrittura ispirata e alla scienza sacra. Ancora una volta si ricorre agli strumenti messi a punto dall'ellenismo:interpretazione del Testo con metodi messi a punto dai filologi; predicazione con strumenti forniti della retorica; indagini teologiche condotte con categorie intellettuali attinti dalla filosofia classica.

Illustriamo ora cosa s'intende con “storia sacra”. I pagani, si sa, amavano rievocare il loro passato mitico; a ciò i gli ebrei e i cristiani contrapponevano la verità storica della loro fede. La Chiesa nel far ciò si era tuttavia imbattuta in un problema: il dover ricorrere alle Scritture ebraiche, specie al Vecchio Testamento. Così, sulla base della dialettica antitipo/tipo, si guarda alle vicende veterotestamentarie come prolettiche rispetto a quelle del Nuovo Testamento: sicché Giona nella pancia della balena (antitipo) viene letto come un preludio ai tre giorni che precedono la resurrezione di Cristo. Quindi, se l'allegoria pagana metteva in relazione le parole con le cose, l'interpretazione cristiana collegava eventi storici con eventi storici (pp. 63-70).

Anche le scene bibliche erano raffigurate come scene storiche, tant'è che l'«espressione della trascendenza» si manifesterà con lentezza. Solo nel IV sec., p.e., sarcofaghi dove raffigurato la natura sovrumana di Cristo, tra l'altro con modelli tratti dall'iconografia imperiale. Di contro, la raffigurazione di Dio si manterrà sempre più simbolica che realistica (pp. 71-75).


Gli uomini tardi antichi possedevano anche una propria Weltanschauuhng. La realtà, per loro, era solo in parte percepibile: invisibili esseri sovrannaturali (demoni e angeli) operavano vicino a loro. Gli angeli erano disposti secondo una gerarchia differenziata sulla base delle funzioni svolte: al vertice del quale c'era un Dio supremo (mentalità comune). In un simile clima si spiega, da una parte, la fortuna delle pseudoscienze (astrologia, teurgia e magia), le quali offrivano possibilità di agire sulla realtà; dall'altra, il tramonto del razionalismo greco, troppo volto alla dimensione, troppo volto alla speculazione e alla sintesi. La Chiesa provò, senza successo, a opporsi a questa mentalità comune, ormai troppo diffusa tra le masse cristiane per essere arginata (pp. 76-83).

Tornando al vertice della gerarchia angelica, una concezione così alta di Dio implicava un culto puramente razionale: ciò vale tanto per i filosofi pagani, alla ricerca di una λογική λατρεία; quanto per i Cristiani. E non stupisce che in Giovanni (24, 4) si parli di un cultus in spiritu et ueritate. Le nuove religioni, quali la fede cristiana e il mitraismo inoltre manifestarono un carattere mistico-iniziatico, in una gradatio diversa da culto a culto. Infine vi è un nuovo uso dello spazio cultuale: mentre i riti pagani avvenivano all'aperto, dando le spalle al tempio; i riti cristiani e mitriaci avvenivano al chiuso dando addito a dicerie (pp. 84-87).

Il Cristianesimo, tra l'altro, cambiò l'aspetto della città. A partire dal IV sec., grazie alla pace della Chiesa (313 d.C.) e al regno di Costantino (324-337 d.C.), assistiamo alla diffusione di edifici ispirati dai mausolei pagani (si pensi agli edifici a pianta circolare) e della basilica. Di quest'ultima tipologia di edifici, conosciuta dai Romani già da 400 anni, vengono mutate le finalità. Sebbene fosse già stata utilizzata per usi religiosi (come sinagoghe o per culti misterici), aveva prevalentemente scopi civili (pp. 88-91).

È dunque chiara la grandezza dell'eredità giunta al Medioevo della Tarda Antichità. Si pensi all'influenza esercitata sul diritto da opere come il Codex Theodosiani, le novelle di Teodosio II e Valentino III; e soprattutto alla diffusione del Cristianesimo nel Mediterraneo a partire da Costatino che portò a fenomeni, gravidi di conseguenze, come il monachesimo e le istituzioni clericali. Le innovazioni addotte dalla nuova religione sono apprezzabili, p.e., nelle novità letterarie all'interno del repertorio liturgico latino; e, su scala maggiore, nell'influenza dei pensatori cristiani, coevi dei neoplatonici, attivi tra il 370 (anno d'investitura a vescovo di Basilio di Cesarea) e il 430 (anno di morte di Agostino). Ma anche sul piano tecnologico: in età classica molte tecnologie, sviluppate a livello teorico, non erano state poi messe in pratica: basti pensare all'eliopila di Erone d'Alessandria e all'organo di Tebisio (pp. 92-99).


Resta da chiederci come gli antichi percepissero la decadenza. Sembra plausibile che gli uomini tardo-antichi non avessero la percezione del fatto, del resto tale problema fu sollevato dagli umanisti italiani del XV sec. Inoltre, ponendoci di fronte alle testimonianze dell'epoca, dobbiamo fare attenzione: per noi moderni il “divenire” è un progresso da uno stadio a un altro, mentre per gli antichi è un passaggio, senza soluzione di discontinuità, dall'atto alla potenza, dal non essere all'essere. Inoltre nel senso comune degli antichi era molto radicata l'idea del declino, tant'è che la ritroviamo sia in scrittori pagani che cristiani (pp. 100-105).



La situazione in Oriente


Da Braun e Hogemberg,
Civitates Orbis Terrarum,

“Byzantium nunc Constantinopolis”
(1572)

Lo sguardo dello studioso francese si sposta, a questo punto, a Bisanzio. Diamo una breve panoramica sulla sua storia: la città fu fondata nel 324 d.C., fu dedicata nel 330 d.C. e nel 1453 crollò sotto i colpi di Maometto II. La città seppe imprimere il suo back-ground ellenistico e la sua cristianità in vari àmbiti: 
  • nell'arte, si pensi p.e. a Santa Sofia o alla pittura iconica;
  • nelle letteratura che nella sua fedeltà ai canoni classici trova il motivo della sua grandezza e, al contempo, della sua limitatezza;
  • nella filosofia che, nonostante la vivacità e la fecondità espresse passò inosservata allo sguardo miope della teologia occidentale(pp.106-111).

Quando finì la tarda antichità?



I popoli germanici
e le Völkerwanderungen.

Data la forte continuità di Bisanzio con la classicità, sorge un problema spinoso: quando ebbe fine la tarda antichità? In aggiunta, di fronte alla sua grandiosa sopravvivenza, viene da chiedersi: perché l'Occidente non fu in grado di scrollarsi di dosso i Barbari? Perché l'Occidente, che tra il VII e il IX sec. riuscirà in seguito a resistere al «secondo assalto delle invasioni», non seppe opporsi alle «invasioni barbariche»? La risposta non è facile. La civiltà greco-romana aveva un carattere urbano: era un mondo in cui la città gravava sulla periferia rurale. Perciò molti cittadini, secondo Marrou, si trovarono a dover sopportare meno oneri sotto i Barbari che non sotto l'impero; di contro l'Oriente pagò la sua sopravvivenza al prezzo di una tirannide poliziesca e fiscale (pp. 112-119).

In ogni caso, non è da edulcorare il periodo in cui si verificò il declino romano; di aspetti negativi ce ne sono, eccome: diminuzione della popolazione, diminuzione della superficie coltivabili e avanzamento dei boschi. Fu inoltre un periodo piuttosto buio per la Gallia, specie nell'arco di tempo compreso tra il 524 e il 537. A tutto ciò consegue l'assottigliarsi del numero dei letterati e il venir meno della struttura-città. E solo nel XI sec., quando grazie all'aggiunta di mura la uilla fortificata diventerà un castello (burgus), avremo il rifiorire delle città (120-123).

Il Cristianesimo è insomma la massima eredità trasmessa dalla tarda antichità al Medioevo. Con poche eccezione si diffonde e progredisce in tutta Europa. Nel IV-VI sec., avviene la conversione delle campagne, a prezzo di ampie concessioni alla mentalità popolare. Fra i cofattori che hanno contribuito al diffondersi della nuova fede non dimentichiamoci il livello di cristianizzazione raggiunto da Vandali, Visigoti e Ostrogoti (fedeli a una sorta di “arianesimo diluito”). Certo, nota Marrou, non è il caso di idealizzare questi primi cristiani: lontani com'era dalle beatitudini evangeliche (a causa del contesto violento in cui vivevano) e dal culto in spiritu et ueritate per la loro mentalità superstiziosa. È certo che il Cristianesimo, in quanto religione colta, contribuì alla nascita di scuole religiose frequentate anche da laici (pp. 126-130).


Tornando all'incontro tra popoli diversi sullo sfondo del Mediterraneo, ricordiamo come alla frontiera dell'impero si stessero creando forme d'arte originali frutto della sinergia tra Völkerwanderungen e cristianesimo. Interessante è anche l'incontro avvenuto in Oriente tra fede cristiana e lingue nazionali:
  • in Egitto il cristianesimo ricorse al copto, Ultima evoluzione dell’antica lingua autoctona egiziana scritta con grafemi greci e 7 segni demotici (quasi un modo di sintetizzare le due anime di quella nazione: l'una faraonica e l'altra alessandrina);
  • nei paesi di lingua semitica si ricorse dapprima all'aramaico e successivamente al siriaco, affermatosi come lingua di cultura;
  • in Etiopia si ricorse al géez (lingua da cui si è sviluppato l'amarico), l'unica tra le lingue semitiche ad annotare scrupolosamente le vocali;
  • in Armenia spicca la figura la figura di Mesrop Mashtots, inventore dell'alfabeto armeno, che, tra il IV e il V sec.,tradusse in armeno le Scritture e unificò le stirpi armene allora divise tra Regno di Armenia, Impero Bizantino e Impero Persiano;
  • un'operazione simile fu compiuta nel Mar Nero da Ulfila (IV sec.), il quale tradusse che curò una traduzione in goto della Bibbia in Goto.
Diverso fu il caso dell'Occidente, ormai completamente latinizzato: i Germani convertiti, infatti, si trovarono volenti o nolenti a dover imparare il latino. Produssero pertanto con cui impressero il loro Geist, contribuendo così alla formazione dell'Europa (pp- 131-36).

Conclusione

È chiaro. Nel corso del libro, Marrou evidenzia più volte alterità e continuità tra l'antichità classica e tarda, tra la romanità e i nuovi popoli. Del resto il metodo di Marrou si basa su di un raffronto complesso e articolato, l'unico possibile per una corretta comprensione della storia: ecco allora susseguirsi esempi tratti dagli àmbiti più disparati (dall'abbigliamento all'organizzazione degli spazi, dalle arti plastiche alla religione).
L'unico aspetto che mi pare un po' trascurato è quello dell'economia, messa molto in ombra. Di diverso avviso è Vismara, la traduttrice del testo, che nell'introduzione afferma che l'autore dà «rilievo all'economia», sebbene limitandola «nello stesso tempo ad uno degli aspetti costitutivi [della civiltà tardo antica]» (p. 9).
In ogni caso, ogni esempio è il tassello di un grande mosaico e basta un piccolo passo indietro, il distacco deontologico dello storico sulla materia esaminata, per avere un grande visione d'insieme. Qualità che a Marrou sembra non mancare. Come asserisce Vismara, «questo testo invita a non accontentarsi della geopolitica nella ricerca di risposte» (p. 9).



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4 commenti:

  1. Molto molto interessante!
    Sul periodo storico in questione, e sul passaggio dal mondo "classico" a quello "medievale" ti consiglio invece: Ernst Robert Curtius, "Letteratura europea e medioevo latino".
    Il libro è soprattutto una storia di come i "topoi" letterari classici diventano "topoi" fondamentali delle letterature europee. Titoli di alcuni capitoli che potrebbero interessarti:
    - La Dea natura
    - Il paesaggio ideale
    - Errate interpretazioni della classicità nel medioevo
    - La concisione come ideale stilistico
    - L'etimologia come forma di pensiero
    - Aforismi numerici
    - Il "sistema delle virtù cavalleresche"
    - La scimmia come metafora

    Dal capitolo "manierismo" mi venne a suo tempo un'intuizione che condensai in questo articolo (che magari è semplicistico, ma quello che dicevo mi sembra sempre abbastanza corretto): http://ilmarinajo.wordpress.com/2007/11/04/viaggiare-con-gli-occhi-8/

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    1. Ciao Marinaio, mi fa piacere che tu commenti sempre i miei post. Curtius lo conosco e ho già avuto modo di studiarmene alcune parti per un esame di letteratura latina medievale. In effetti l'ho apprezzato tantissimo: tra l'altro va contro l'idea romantica di artista difesa da Croce (quella che citi nei commenti del tuo post). Ciò non può che andare a suo vantaggio! ;)

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  2. A proposito, ma quello in copertina che è, un trattore?

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    1. Ahahah! Mi credi non l'avevo proprio notato quel "coso"? :D

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