Un interessantissimo articolo di Mirko Romano, realizzato per la rivista “Monete Antiche”, ha portato alla ribalta un importantissimo aspetto iconografico della celebrazione propagandistica che Augusto fece delle sue campagne vittoriose in Germania, portate avanti dai due figli della sua terza moglie Livia, ovvero i generali noti coi nomi di Druso Maggiore e Tiberio.
Tacito, Svetonio e Velleio Patercolo raccontano la guerra nel nord dell'allora impero, Druso tra il 12 a.C. e il 9 a.C. aveva occupato l'area dell'Elba e incominciato l'opera di costruzione di forti nella zona. Morto lui le operazioni passarono a Tiberio, che nei successivi due anni placò le popolazioni che ancora si ribellavano alle conquiste drusiane e quelle che volevano approfittare del vuoto di comando delle legioni romane in Germania per liberarsi del giogo romano, come Suebi, Sigambri e Reti. Per le vittorie riportate, egli fu salutato imperatore per la seconda volta, assieme ad Augusto che partecipava ai meriti del figliastro in quanto agente in sua vece.
Per festeggiare Tiberio e la prosperità dell'impero Augusto emise nel 7 a.C. dei medaglioni. Ancora dibattuto è se questi oggetti, emessi dalle zecche privi della dicitura “S(enatus) C(onsulto)” che li avrebbe resi legittimi allo scambio, fossero usati come valore di scambio, in quanto spesso ricoperti di materiale prezioso. Quello che rende speciale questa particolare emissione non è la loro incerta liceità di scambio, ma il fatto che Augusto adottò pochissimo questa forma di propaganda, sfoggiando una politica monetaria piuttosto austera in confronto alle imprese, interne ed esterne, portate a termine per Roma, e che il soggetto dei medaglioni, ovvero Augusto coronato da una vittoria, fu utilizzato eccezionalmente in questi medaglioni per la prima volta in maniera massiccia. Tale soggetto fu adottato anche da alcune monete coeve, e da alcune phalerae che dovevano servire da onorificenza per i soldati distintisi in battaglia, probabilmente proprio nelle guerre germaniche.
Il dott. Mirko Romano ha diligentemente scovato queste onorificenze da armatura in alcune aste per collezionisti, notandone soggetto e fattura con grande precisione, e ridonandoci l'idea dell'entità della risonanza che tale propaganda dovette avere rispetto alle precedenti, consacrando la figura di Augusto vincitore all'immaginario collettivo dell'impero romano e, dopo questo articolo, anche al nostro.
Con la quinta puntata di "Friends in Punkrock" s'inaugura La bottega degli obbrobri, rubrica curata dal sottoscritto: si tratta, come recita il jingle, di «cinque minuti di perle di saggezza e aneddoti direttamente dai lati oscuri della cultura».
Prima di proseguire con la lettura e l'ascolto del podcast, vi invito (se non l'avete ancora fatto) a mettervi in pari con le precedenti puntate:
Il comportamento degli antichi Romani a tavola non rientrerebbe certo nei canoni dell'odierno bon ton. Le fonti antichi, letterarie e non, parlano chiaro. Un esempio? Trimalcione, celebre personaggio del Satyricon, invita i suoi commensali a non trattenere eventuali flatulenze in triclinio, giacché sono proprio i medici a sconsigliare di farlo!
«Ignoscite mihi, inquit, amici, multis iam diebus venter mihi non respondit. Nec medici se inveniunt. Profuit mihi tamen maleicorium et taeda ex aceto. Spero tamen, iam veterem pudorem sibi imponet. Alioquin circa stomachum mihi sonat, putes taurum. Itaque si quis vestrum voluerit sua re causa facere, non est quod illum pudeatur. Nemo nostrum solide natus est. Ego nullum puto tam magnum tormentum esse quam continere. Hoc solum vetare ne Iovis potest. […] Nec tamen in triclinio ullum vetuo facere quod se iuvet, et medici vetant continere. Vel si quid plus venit, omnia foras parata sunt: aqua, lasani et cetera minutalia. Credite mihi, anathymiasis si in cerebrum it, et in toto corpore fluctum facit. Multos scio periisse, dum nolunt sibi verum dicere.» Petronio, Satyricon 47, 2-6
«Scusatemi, amici, ma ormai il mio intestino non mi dice il vero. E i medici non si raccapezzano. Tuttavia ha giovato la scorza di melagrana e la resina di pino nell'aceto. Tuttavia spero, di qui in avanti saprà rimettersi nei ranghi di un tempo. In caso contrario continuerà a brontolarmi intorno alla stomaco, che sembra un toro. Pertanto, se qualcuno di voi ha voglia di fare i suoi bisogni, non c'è da peritarsi. Nessuno di noi è nato senza buchi. Per me non c'è tortura maggiore del trattenersi. Questa è l'unica cosa che non può proibire nemmeno Giove. […] Comunque io non proibisco a nessuno di fare, nel triclinio, ciò che gli aggrada; anche i medici proibiscono di trattenersi. Che se poi viene da fare qualcosa di più consistente, fuori c'è pronto tutto l'occorrente: acqua, pitali e tutti gli altri accessori. Datemi retta, se il meteorismo va al cervello, provoca fluzioni in tutto il resto del corpo. So che molti son morti a questo modo, per non voler vedere le cose come stanno.» (Traduz. di A. Aragosti)
Quella malalingua di Svetonio, storico vissuto tra I e II sec. d.C., ci conferma questa credenza medica in un curioso aneddoto intorno a Claudio, l'imperatore più zimbellato della storia.
dicitur etiam meditatus edictum, quo ueniam daret flatum crepitumque uentris in conuiuio emittendi, cum periclitatum quendam prae pudore ex continentia repperisset. Svetonio, Vita di Claudio, 32
si dice anche che avesse meditato di fare un editto per consentire di fare peti e rutti durante i banchetti, dopo aver saputo che uno aveva rischiato di morire, essendosi trattenuto in sua presenza per pudore. (traduz. di F. Casorati)
Il testo suddetto ci fornisce l'assist per trattare di un'altra pratica che oggi considereremmo, specie a tavola, alquanto oscena: parliamo del ructus. In un suo componimento, l'icastico Giovenale, poeta satirico vissuto tra I e II sec. d.C., scrive:
non sumus ergo pares: melior, qui semper et omni
nocte dieque potest aliena sumere vultum
a facie, iactare manus laudare paratus,
si bene ructavit, si rectum minxit amicus,
si trulla inverso crepitum dedit aurea fundo. Giovenale, Satira III 107
Troppo diversi siamo, è chiaro: chi notte e giorno senza posa è in grado di assumere l'espressione dei visi altrui, pronto ad applaudire e lodare se l'amico ha ruttato bene, pisciato senza inciampi o se il pitale d'oro ha rimbombato finendo capovolto, ha tutto dalla sua.
Persino Cicerone in una sua lettera (Epistola ai familiari IX, 22) fa menzione alla pratica.
Non fa eccezione Zoilo, un personaggio modellato sul Trimalcione di Petronio, il quale addirittura si fa aiutare da un eunuco a urinare:
Stat exoletus suggeritque ructanti
pinnas rubentes cuspidesque lentisci,
et aestuanti tenue uentilat frigus
supina prasino concubina flabello,
fugatque muscas myrtea puer uirga.
Percurrit agili corpus arte tractatrix
manumque doctam spargit omnibus membris;
digiti crepantis signa nouit eunuchus
et delicatae sciscitator urinae
domini bibentis ebrium regit penem. Marziale, Epigrammi X, 82 vv. 8-17
Gli sta apprezzo un ganzo che gli porge quando rutta rosse piume e stecchini di lentisco; se ha caldo, una concubina sdraiata sul dorso gli dà un leggero refrigerio con un ventaglio verde e un garzone scaccia le mosche con un ramo di mirto. Una massaggiatrice con agile arte gli friziona il corpo e fa passare l'abile mano su tutte le membra; a uno schiocco di dita, l'eunuco, che ben conosce il senale, cura le emissioni della sua delicata urina, e regge il pene sbronzo del padrone che trinca. (Trad. di M. Scàndola)
Ma il punto più basso, probabilmente, lo si raggiunge in un'iscrizione pompeiana (CIL IV 5244), rinvenuta in una latrina, dove troviamo scritto:
Marthae hoc trichilinium est, nam in trichihnio cacat.
Bibliografia
Edizioni critiche
Enzo V. Marmorale (a c. di), Petronii arbitri cena Trimalchionis, La Nuova Italia, Firenze
Edizioni, traduzioni e commenti di opere petroniane
Andrea Aragosti (a c. di), Petronio. Satyricon, BUR, Milano 201116 (1a ediz. 1995)
Francesco Casorati (a c. di), Svetonio. Vita dei Cesari, introduzione di Lietta De Salvo Newton, Roma 20102 (1a ediz. 1995)
Mario Scàdola, Elena Merli, Marziale. Epigrammi, voll. 2, saggio introduttivo di Mario Citroni, traduzione di Mario Scàndola, note di Elena Merli, BUR, Milano 20083 (1a ediz. 1996)
Non sono un esperto informatico, ma non posso negare un certo interesse per la telematica, nonché per le questioni inerenti all'open source e all'universo dei software liberi. Da circa tre anni (ovvero da quanto, un bel dì in quel di Pisa, Windows Vista decise di abbandonarmi), utilizzo sistemi operativi Linux. Ora, poiché studio lettere antiche, in varie occasioni ho avuto la necessità di inserire passi in greco antico nei documenti redatti con OpenOffice.
Pertanto in questo post spiegherò, in modo cursorio, come procedere all'installazione dei giusti font nei sistemi operativi basati su Linux.
Fonts per il greco antico
Es. di testo in greco politonico: l'incipit del Vangelo secondo Giovanni.
A seconda del sistema operativo e del programma usato per la videoscrittura, per la digitazione del greco politonico è consigliabile ai fini di una migliore visualizzazione (ma non necessario, in quanto il greco scritto con Unicode si visualizzerà sempre) usare i seguenti font:
Giungiamo al nocciolo della questione. Qualora qualcuno non possieda uno di questi font preinstallato nel proprio computer, un buon font Unicode, gratuito e open source, per il greco politonico, è Gentium, liberamente scaricabile (per Windows, per Mac OS X o per Linux) . Installare nuovi font sui sistemi Linux, quali Ubuntu o (nel mio caso) Mint, non è affatto difficile.
Ora, come spesso accade nel mondo dell'informatica, ci sono più modi per realizzare questa procedura: a ogni modo, tra quelle che conosco, la seguente è sicuramente la più semplice.
Procuriamoci il font *.ttf che ci interessa, potremmo cercarlo su http://www.dafont.com/, ce ne sono tantissimi (per scaricare Gentium, cliccate direttamente qui).
Salviamo il file dove vogliamo e, se è un archivio, ovviamente lo scompattiamo.
Andiamo nella nostra Home, Ctrl+H per visualizzare le cartelle e i file nascosti.
Cerchiamo la cartella .fonts o, se non c’è, la creiamo.
Copiamo nella cartella .fonts il file *.ttf che abbiamo appena salvato.
Ovviamente la suddetta procedura è valida per l'installazione di qualunque font.
Confesso: il mio non era altro che un pregiudizio. Ma come potevo non trovare antipatia per un autore che titola una sua opera La schiuma dei giorni? Ditemi se esiste un titolo più indie-snob-radical-chic? Dico di no. Poi, una sera d'agosto in quel di Milano Marittima, passando davanti a una bancherella che rivende libri (usati e forse rubati), un mio amico mi consiglia di comprare il libercolo in questione. Non l'ha mai letto, ma sa per certo che è bello perché gliel'ha consigliato un'amica (?). E così afferro l'esile volumetto e vado a pagare dalla tipa, una mostruosa mistione tra Minosse e Cerbero. Tornato in albergo, nella quiete della notte, me lo leggo, o meglio: lo divoro! Non c'è storie: mi sbagliavo a precludermi per simili preconcetti.
Primo piano dell'autore.
Prima di passare alla recensione vera e propria, però, ecco alcune informazioni sulla vita dell'autore e la sua produzione. Boris Vian (Ville-d'Avray, 10 marzo 1920 – Parigi, 23 giugno 1959), nella sua breve vita, è stato quello che si può definire un personaggio eclettico: scrittore e trombettista, drammaturgo e paroliere, poeta e traduttore francese; è stato anche membro del Collège de Pataphysique nonché dirigente del reparto discografico jazzistico presso Philips. Insomma, un'esistenza da sempre oscillante tra due passioni: la letteratura e la musica, o meglio il jazz. Morì la mattina del 23 giugno 1959, mentre si trovava al Cinema Marbeuf in occasione della proiezione della versione cinematografica del suo romanzo Sputerò sulle vostre tombe: cinque minuti dopo l'inizio del film, venne colto da una crisi cardiaca e se ne andò durante il trasporto all'ospedale. La morte non giunse tuttavia inaspettata, giacché da sempre soffrì di problemi cardiaci. Nonostante la prematura di partita, lasciò numerosi testi, molti pubblicati postumi; tra le sue opere più significative ricordiamo: il romanzo La schiuma dei giorni (1944-45), considerato da molti il suo capolavoro; il noir a tinte forti Sputerò sulle vostre tombe (1946), pubblicato sotto pseudonimo; e Lo spaccacuori (1951), il suo romanzo più difficile.
Ora, torniamo alla nostra raccolta. Avete presente quando avete delle fisse a cui siete anche quasi affezionati, che ritenete uniche e irreplicabili? Beh, io ho quella dei denti: non so come dire, ma ci vedo una sorta di allegoria della vita. Specie quando si ha a che fare con devitalizzazioni et similia. A volte questi tuoi personali pallini li trovi espressi, senza nemmeno immaginartelo, in certe letture: in quei non puoi che esserne preso all'amo. Per me è stato il caso della seguente poesia:
La vita, è come un dente All'inizio non ci si pensa Felici di masticare Ma poi ecco che d'improvviso si guasta Fa male, e preoccupati Lo si cura non senza fastidi E per esser veramente guariti, Bisogna strapparlo, la vita.
La raccolta, pubblicata postuma nel 1962, si caratterizza per il vitalismo di cui sono venati i 23 componimenti. Ma attenzione: il suo vitalismo non è né retorico, né buonista à la Jovanotti; è, semmai, il disperato tentativo di opporre all'ineluttabilità della Morte la fragilità della Vita. Una battaglia persa in partenza. Tutto ciò è veicolato con humour, callidae iucturae e audaci (quanto espressivi) accostamenti di immagini. Chi conosce il francese (non è il mio caso), apprezzerà anche la rinomata musicalità dei versi (ricordo che Vian, finché il cuore gliel'ha permesso, è stato un trombettista jazz): una musicalità che, a ogni modo, può essere intuita dando un'occhiata al testo francese.